Cultura

«Scrivere è come scendere in miniera». Incontro con Sebastiano Vassalli

Se ne è andato questa notte lo scrittore Sebastiano Vassalli, 73 anni, autore della "Chimera", di "Marco e Mattio" e del recente "Terre selvagge". Nel luglio del 2011 lo avevamo incontrato nella sua casa di Biandrate, tra Novara e Vercelli, tra le risaie e i libri. "I miei lettori migliori sono manovali, muratori, disoccupati - diceva - gli altri, non mi interessano"

di Marco Dotti

«Dalle finestre di questa casa si vede il nulla». Si apre così La chimera, il romanzo di Sebastiano Vassalli sulla vita e la condanna della piccola Antonia, orfana marchiata e arsa come strega, nella pianura novarese del XVII secolo. Allora come oggi è sempre quel “nulla”, spazio bianco e piano che si stende da Novara a Vercelli, circondato da pioppi, argini, risaie e (oramai) autostrade – rotto solo dall'immagine lontana del Monte Rosa che i contadini “risaioli” chiamavano, appunto, “chimera”– ad avvolgere le storie di Sebastiano Vassalli. Le storie e la vita.

Scolpire il tempo

Perché le cose non sembrano, e forse nemmeno lo sono, cambiate molto qui, nella campagna novarese di Biandrate, dove «in mezzo al nulla» lo scrittore ha costruito la sua oasi di silenzio e lavoro.

Vassalli abita nel bel mezzo di questo “nulla”, in un magnifico cascinale che ha restaurato nei pressi di Biandrate. Circondato da un frutteto e da un boschetto – «tutti alberi piantati da me» –, dall'acqua delle risaie, dalla nebbia, dalle storie. Perché – ci ricorda – questo è un «nulla pieno di storie».

Quelle storie che Vassalli scava, come dice lui «scendendo in miniera». Due, tre, anche quattro anni per il lavoro di ricerca e di scrittura (a mano, poi a macchina), di un libro. Niente computer, niente artifici. Lui e la parola. Lui e quel nulla. Lui e le storie.

«Quando guardi la Storia, e la guardi da vicino, e ti aggiri per archivi, e scavi, scavi, e scopri che più vai a fondo, più ciò che sembra immobile non lo è, ti poni inevitabilmente domande. E ogni risposta – nella sua inevitabile parzialità – che provi a darti ti riporta sempre al punto di prima: partendo da un particolare, calandosi in un'atmosfera, insomma guardandola, per quanto ci è possibile senza troppe mediazioni, la Storia appare sempre tutta un'altra storia…».

Vassalli mi accoglie in compagnia di Alberto Casiraghy, editore del Pulcinoelefante, amico comune. Arrivare non è stato facile. Sia io che Alberto non ci siamo capiti: lui pensava arrivassi io in macchina, ma io non ho una macchina. Io pensavo arrivasse lui, ma anche lui non possiede una macchina. Ci siamo così trovati in una stazione senza sapere come andare e dove andare. Vassalli ci è venuto in soccorso, con una vecchia Volvo.

Arrivati, entriamo in in una stanza magnifica, della sua casa.

Il camino spento e imponente, quadri di amici artisti alle pareti, ma anche ritratti e sculture fatti da persone “comuni”.

«Stentereste a crederlo – ci confessa– se vi dicessi che i miei lettori forti, quelli a cui anche tu, l'Autore con tanto di “A” maiuscola non saprebbe replicare, sono muratori, falegnami, insegnanti certo, ragazzi?»

Gente semplice, che in un libro ha scoperto o ritrovato un mondo. Un mondo fatto di storie. «Io mi occupo di personaggi e di storie. Non voglio dimostrare nulla.



Il mestiere dello scrittore consiste nel raccontare storie. Così era ai tempi di Omero e così è ancora oggi. È un mestiere antico come il mondo, che risponde ad una necessità degli esseri umani, ad un loro bisogno fondamentale: quello di raccontarsi. Finché ci saranno nel mondo due persone, ci sarà chi racconta una storia e ci sarà chi ascolta una storia. Quante cose si fanno, o si sono fatte, che non si sarebbero mai fatte se non ci fosse stata la possibilità di raccontarle! Senza la memoria del passato che è all'origine di ogni racconto, il nostro percorso di civiltà sarebbe ancora fermo da qualche parte nella notte dei tempi. Le grandi conquiste e le grandi imprese di ogni genere non avrebbero avuto lo stimolo per compiersi, e anche gli atti di eroismo sarebbero stati rari, e sarebbero stati scambiati per follia…..

Sebastiano Vassalli

Perché le storie, se sono vere, si dimostrano da sole», Anche se, precisa subito, la pianura d'acqua e nebbia, di riso e grano, sovrastata dal “macigno bianco” del Monte Rosa, operosa e schiva, «tende a essere un non-luogo letterario». Lo spazio in cui si svolgono le storie, «non lo trovi su una mappa, su un atlante, su un navigatore. Almeno non del tutto». Forse per questo, la più grande tra le storie non raccontate di questa pianura «è la sua stessa storia o, se si preferisce, quella del suo paesaggio». Quel paesaggio che l'uomo ha modificato, nel corso dei secoli, venendone a sua volta modificato.

Cercando l'oro

Molte delle figure che abitano i romanzi di Sebastiano Vassalli sono vagabondi cercatori d'oro, matti che come i “camminanti” del '600 tracciano le loro rotte, nel mare della pianura, avendo come unico punto di riferimento quella montagna che, come nel recente Le due chiese (Einaudi, 2010), «è sempre al suo posto, lassù in cima alla pianura e al centro di tutte le valli: con il suo paradiso perduto al di là della montagna e con il suo inferno sotto i ghiacciai».

Ancora oggi, d'inverno, viste da Biandrate, «le montagne scompaiono, il cielo e la pianura diventano un tutto indistinto, l'autostrada non c'è più, non c'è più niente». Nelle mattine d'estate, e nelle sere d'autunno, invece, quel “nulla” è «una pianura, vaporante, con qualche albero qua e là e un'autostra da che affiora dalla nebbia per scavalcare altre due strade, due volte: laggiù, su quei cavalcavia, si muovono piccole automobili, e camion non più grandi dei modellini esposti nelle vetrine dei negozi di giocattoli».

In un mondo di ghostwriters o editors invadenti, e di autori dotati tutt'al più del physique du rôle, Vassalli è uno degli ultimi artigiani vedi, duri e concreti della parola.

Scrive con fermezza, scolpisce nelle parole il tempo e dopo aver vinto premi letterari (lo Strega e il Campiello), ha testardamente scelto di esserci nella letteratura e nel mondo rivolgendosi ai lettori («persone, amici lontani, non numeri») ma senza partecipare agli oramai esangui rituali delle società letteraria. Nella quarta di copertina del suo ultimo libro, Le due chiese, si legge: «Per decisione dell'Autore questo libro non partecipa ad alcun premio letterario».

Irriducibile, Vassalli, come quello che ama definire «il mio babbo matto: Dino Campana», il poeta dei Canti orfici che, proprio a Novara, dopo una notte passata in gattabuia, compose una delle sue ultime poesie, La dolce Lombardia coi suoi giardini.

Non tutto è vanità

Dino Campana, racconta Vassalli, che al poeta di Marradi ha dedicato una splendida ricostruzione biografica, La notte della cometa (Einaudi, 1984), «voleva fortissimamente pubblicare. Non per vanagloria, non per vanitas, ma per esistere, per esserci, per fare. A Prezzolini, in una lettera del '16, scrisse: “Nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora”. Anche a me è successa la stessa cosa. La mia ostinazione la ritrovo in due versi di un altro poeta. Quasi tutto è vanità, ma come scrive Ezra Pound: “ Avere fatto invece di non avere fatto /questa non è vanità”.

Quando di tanto in tanto mi arriva un rendiconto dalle biblioteche inglesi, 50 centesimi o poche sterline non è questo che conta, sui proventi della lettura pubblica di un mio libro, mi sento più tranquillo. Nel Regno unito funziona così: all'autore, le biblioteche riconoscono un tanto, ogni volta che un lettore prende in prestito un loro volume. Non è questione di denaro, è questione di rispetto. So che qualcuno considera il mio lavoro, so che, come direbbe Campana, “esisto”. So che se scrivi, non sei la controfigura di una qualsiasi valletta nella società dello spettacolo.

Per il resto,

conservo ancora l'iscrizione alla Camera di Commercio, come venditore ambulante di libri. Presentai domanda nel 1982 e da allora, per me, questa è la massima garanzia di libertà».

Ride, Vassalli, mentre ci mostra il certificato di iscrizione. «Nemmeno questa è vanità», ci rassicura. Mentre ci saluta, dopo una giornata tra libri, paesaggio, gamberi di risaia e parole, ci dice:

«C'è sempre un punto nella nostra vita e nel nostro passato in cui la parola è come una luce che brilla, nelle tenebre… e nel nulla. Per me, la poesia è vita, vita che rimane imbrigliata in una trama di parole. Tutto qua».

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