L’ho pensato proprio sul più bello, mentre schiacciavo il tasto “on” del microfono e iniziavo a parlare: “buongiorno a tutti, grazie di avermi invitato…”. Ero al convegno di Aiccon sulla social entrepreneurship. Prima di me lectio magistralis di uno dei suoi guru, Alex Nicholls, e poi altri interventi, come quello di The Hub Milano (apre fra qualche giorno auguri!) che ampliavano il solco nella direzione di un modello decisamente meno istituzionale e “laico” di impresa sociale: slegato da forme giuridiche, settori di attività, distribuzione di utili, ecc.
Mentre io, presentando il caso italiano, partivo proprio da questi aspetti per poi gettare il cuore oltre la siepe. Però prima di divertirsi a fare ingegneria giuridico – organizzativa, è meglio concentrarsi sul paradigma entro il quale prendono forma nuovi rapporti sociali ed economici. E venerdì scorso a Forlì si confrontavano due approcci diversi (forse opposti). Quello tradizionale, all’italiana, ha tentato di fare innovazione sociale attraverso un percorso di institution building, creando (non dal nulla, ma dalla costola del movimento cooperativo e del terzo settore) una nuova forma d’impresa. Nella versione di Nicholls (e delle business schools, degli Hub, di Yunus e di tanti altri) l’innovazione sociale sociale è invece un “concetto ombrello” sotto il quale si coalizzano soggetti diversi intorno a progettualità che hanno l’obiettivo di cambiare l’agenda delle politiche in ambiti chiave come l’ambiente, la sicurezza, la lotta alla povertà, ecc. Quale funziona meglio? Nel caso italiano si è giunti a uno snodo cruciale. Dopo una trentina d’anni (che considerando la posta in gioco e le condizioni del paese non sono neanche molti) si giunti a definire e, cosa importante, a implementare un modello d’impresa capace di soddisfare obiettivi di interesse generale, secondo logiche “altre” dal binomio stato e mercato (e dai relativi fallimenti). Ma il tutto è avvenuto in una nicchia settoriale e con un sistema di alleanze decisamente poco strutturato. Il rischio è quindi l’autoreferenzialità: si cesella un modello, ma che non è in grado di fare effetto leva, generando cambiamenti sistemici significativi, anzi rischia di essere fagocitato dal mainstream (che è durissimo a morire). O peggio, pecca (mortalmente) di megalomania, penasando di poter fare da sé. L’altro approccio, oltre che essere decisamente più trendy (e in quest’epoca non guasta) è più orientato al cambiamento, sfruttando la congiuntura e soprattutto l’effetto moltiplicatore che deriva dal coalizzare tante diversità (dai filantropi, ai policy maker, agli imprenditori sociali e non, ecc.). Però mi sembra che allo sforzo per la creazione di consenso sugli obiettivi, non corrisponda altrettanta attenzione rispetto “al come” si vogliono realizzare queste finalità. C’è quasi un’idiosincrasia per tutto ciò che è governance di processo. E la governance, si sa, ha a che fare con il potere.
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