Welfare

Scommettere sul locale per resistere al globale

«Il grande errore è stato quello di distruggere le risorse dell’economia del territorio. Ora si deve partire dal piccolo. In particolare dalla struttura familiare. E il non profit...»

di Giampaolo Cerri

Luciano Gallino in questi giorni risponde continuamente a interviste sulla Fiat. È un sociologo che studia il lavoro, è torinese, conosce bene la realtà della grande industria dell?auto. «Finora però nessuno mi aveva sottoposto un?idea del genere», ammette. Di fronte all?ipotesi ?sociale? su Termini Imerese non si tira indietro. Vita: Professore, se spendessimo diversamente quel danaro? Secondo lei, si può tentare altro? Luciano Gallino: Tentare altro sarà opportuno oltre che indispensabile, conoscendo quello che fa la General Motors con le sue acquisizioni. Molti stabilimenti italiani chiuderanno. Per la Daewoo in Corea, Gm ha tagliato 9 stabilimenti su 14, di cui uno modernissimo a Seul. Però prima di immaginare un?ipotesi come quella di un distretto dell?economia sociale, bisogna tener presente le esperienze, le qualifiche, l?età della forza lavoro di cui si parla. A Termini le persone sono entrate ventenni e oggi hanno 45 anni. Hanno una lunga esperienza in una fabbrica manifatturiera, convertirle in forza lavoro adatta per servizi alla persona, mi sembra difficile. Vita: Perché professore? Gallino: C?è un problema di qualificazione. Se per vent?anni si fa un mestiere, per farne uno totalmente diverso si deve essere formati e questo è un processo che costa. Poi c?è il fatto della motivazione. Per quanto il lavoro industriale sia duro e rischioso, le persone ne traggono motivo di identità, talvolta di orgoglio. Il passaggio a un?occupazione completamente diversa troverebbe questi 45enni scarsamente motivati. Anche se, naturalmente, di fronte alla disoccupazione?. Vita: Alternative? Gallino: Tentare un rilancio dello sviluppo locale. Far sì che le qualità specifiche, gli assets della zona, possano essere costruiti cercando di generare un?economia meno dipendente dall?esterno di quanto lo sia. è la storia della globalizzazione, ormai. Anche quando ha successo ha questo grave rischio: il centro di decisione è lontano. Fintanto che le cose vanno bene, fa lavorare sul posto. Quando il vento gira, taglia posti di lavoro. Una quota di globalizzazione può essere utile e necessaria: conviene a tutti comprare migliori orologi o cellulari là dove li fanno, però si è esagerato. Si sono distrutti artigianato, distretti agricoli, attività locali che con gli investimenti che l?industrializzazione richiede, avrebbero potuto dar luogo a forme di sviluppo meno dipendente. L?interdipendenza del mondo globale significa, in molti casi, la totale dipendenza dall?esterno. Da qualcuno che non conosce i luoghi e che è del tutto irresponsabile rispetto agli interessi locali. Vita: Che fare, dunque? Gallino: Mettere insieme cose che abbiano a che fare con lo sviluppo di quel territorio. Dall?agricoltura tipica locale ai servizi alla famiglia non solo come servizi alle persona. Penso alla famiglia come piccola impresa che ha una casa, un?auto, degli elettrodomestici. In un quadro più articolato, ci sono servizi che possono essere resi anche dal non profit. Vita: Il rischio è che si intervenga alla vecchia maniera, stile Gepi? Gallino: Il decentramento è parte integrante di questo tipo di sviluppo. Senza ignorare però il problema delle risorse: sviluppo locale vuol dire investimento. Minore di quello che costerebbe salvare quello che ormai non appare più salvabile. Non dimentichiamo però che la filiera dell?auto è lunghissima: tiene dentro il supermercato vicino allo stabilimento all?autista della bisarca che trasporta le auto a Nord.


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