Politica

Schwazer e i farisei

di Franco Bomprezzi

Non so. Faccio il giornalista da troppi anni per abboccare all’amo di qualsiasi dichiarazione condita da lacrime. Eppure oggi ho ascoltato con attenzione la conferenza stampa del tutto inusuale di Alez Schwazer. Mi interessa poco conoscere, adesso, i particolari giudiziari e di indagine di questa vicenda. Se abbia davvero agito da solo oppure se da tempo abbia subito il fascino delle lusinghe di cattivi consiglieri.

Schwazer ha infatti ammesso ogni oltre ragionevole dubbio di essere colpevole di una gravissima mancanza, e ha ribadito di non volere nessuno sconto di pena, e dunque la sua carriera sportiva è definitivamente finita. Ho avuto la sensazione che abbia disperatamente cercato di farsi scoprire, come fanno spesso i criminali, che seminano indizi, da un lato per verificare fino a che punto gli investigatori sono fessi, dall’altro perché sanno che la corsa deve finire, bisogna arrivare al capolinea, e fermarsi.

Il ragazzo altoatesino ha raccontato molte cose che ci riguardano da vicino. Ha parlato di uno sport che esige la vittoria, e che ti considera un fallito se non centri il risultato che tutti si aspettano da te. Ha detto che in casa sua ci sono le medaglie, ma che la vita è importante per la famiglia, per gli amici, per la vita normale.

Ha parlato del viaggio in Turchia con naturalezza disarmante, e in qualche modo ci ha voluto aprire squarci su quello che chiunque oggi può fare utilizzando informazioni a portata di web. Ha anche spiegato che l’uso dell’eritropoietina non gli ha dato, nel breve termine, nessun vantaggio, perché era compensata dalla vergogna, dall’insoddisfazione personale, dalla necessità di nascondersi, di celare questo segreto a tutti, e in particolare alla sua famosa fidanzata.

Ha chiarito che per lui il sacrificio dello sport era arrivato a dargli la nausea, era uno sforzo insopportabile. Vuole adesso essere giudicato come persona, per quello che saprà fare in un lavoro normale. Certo, sono parole, sguardi, risposte a domande cattive, sotto il continuo lampeggiare di flashes impietosi. Può aver mentito, ma perché? Può aver coperto qualcuno. Ma non è questo il punto.

Schwazer ci ha messo tutti con le spalle al muro. E’ dall’inizio delle Olimpiadi che non sopporto la litania sulle medaglie italiane. E quante ne abbiamo conquistate, e quante ne abbiamo perse per un soffio, e quante ne prenderemo ancora, e quante ne abbiamo vinte a Pechino. Sembra che l’Italia si possa giudicare oggi solo per il numero delle medaglie conquistate a Londra. A me, sinceramente, non importa affatto. Mi sono entusiasmato per il sorriso trionfante di un nostro atleta felice di essere arrivato decimo nella gara di triathlon, mi è piaciuta la spavalda facilità di corsa di Usain Bolt, mi ha commosso lo scambio di pettorale tra Pistorius e il vincitore della finale dei 400 metri (del quale non ricordo neppure il nome).

Il moralismo di queste ore è asfissiante e falso, frutto di un farisaismo che ormai ammorba l’aria di questo Paese. Sepolcri imbiancati, pronti a giudicare gli altri, e a non mettersi mai in discussione. Giudicare senza conoscere, senza sapere. Certo, Schwazer ha compiuto un gravissimo errore, prima di tutto nei confronti di se stesso. Ma la sua confessione dovrebbe casomai spingerci a cercar di capire quanta epo ci sia nel sangue di tanti altri atleti, di Paesi nei quali ad esempio i controlli non si fanno per principio, ma che vengono esaltati per capacità di sacrificio e di applicazione.

Io chiederei al giovane Schwazer di dedicare il prossimo anno alle scuole, andando a parlare con i giovani, di sport, di valori, di aspirazioni, di errori, di amicizia, di affetti. La sua esperienza, proprio perché tremenda, secondo me è credibile e comprensibile da parte dei giovani, che vivono il malessere di una società basata sulla performance a tutti i costi, sulla perfezione da esibire a ogni costo, sul primo gradino del podio come unico obiettivo accettabile.

Lo sport è una metafora della vita, che ci piaccia o meno. Io oggi, ascoltando Schwazer, mi sono sentito vicino alla sua umanità. Non per perdonarlo, cosa che non mi riguarda, ma solo per comprenderlo, e rispettarlo come persona.

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