Famiglia

Scelta o rinuncia? Cosa pesa su quell’1,18 figli per donna

Nel 2024 sono nati solo 370mila bambini. «Dobbiamo smettere di sorprenderci e iniziare a ripensare la fiscalità in modo da tenere conto di questo vuoto», afferma la demografa Alessandra Minello. Da un lato i figli sempre più spesso non rientrano nel piano di vita delle persone, dall'altro servono politiche più attente ai giovani. A cominciare dagli stipendi

di Sara De Carli

Prima c’era la soglia psicologica dei 60 milioni di abitanti. Poi la soglia psicologica dei 500mila nuovi nati, sotto cui siamo scesi nel 2015. Poi quella dei 400mila, scollinata nel 2022. Nel 2024 in Italia sono nati 370mila bambini, il minimo storico assoluto. L’altro record che è stato battuto è quello della fecondità: 1,18 figli per donna, meno dell’1,19 segnato nel 1995. Solo che rispetto ad allora, quel misero centesimo di differenza significa 156mila nascite in meno: nel 1995 infatti i nuovi nati furono 526mila. Colpa della struttura demografica: le donne tra 15 e 49 anni – potenzialmente madri – sono scese da 14,3 milioni a 11,4 milioni. Ogni anno ci si trova a commentare con amarezza i dati Istat, ma ormai da tempo non c’è più alcuna sorpresa. «È proprio questo il punto: dobbiamo smettere di vivere questi dati come una cosa sorprendente e fare i conti con il futuro che ci riserva il fatto che i dati siano questi, stabili nel tempo, al netto di una narrazione sull’arginare la denatalità che viene più comunicata che agita», afferma Alessandra Minello, demografa dell’Università di Padova.

Nel numero che VITA ha dedicato a indagare il “Perché non vogliamo figli?”, (leggi qui) Minello aveva indicato la parola “scelta” come vocabolo che oggi caratterizza in modo peculiare l’approccio all’essere padri e madri. «Mentre per le nostre generazioni troppo spesso la non genitorialità è una rinuncia, per le giovani generazioni la non genitorialità è soprattutto una scelta. Una survey pubblicata a maggio 2024 dall’Istat sui ragazzi e le ragazze di 11-19 anni mostra che il 70% desidera diventare genitore, mentre il 30% non vuole o non lo sa: è vero che questa scelta può essere ridefinita nel tempo, ma il 30% è un dato molto alto. Il rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo parla di un 53% di persone tra i 25 e 34 anni di età che si dichiara poco o per niente disposto ad avere figli nei tre anni successivi. Ovunque, anche nei Paesi in cui la fecondità è maggiore della nostra, si sta espandendo la quota di persone che non vuole figli, persone per cui la genitorialità non rientra nella definizione della propria identità e del proprio benessere. Pesano il tema del sovrappopolamento e la questione climatica, che fanno sorgere il dubbio etico sul mettere al mondo figli. C’è la situazione di incertezza che non riguarda solo l’ambito lavorativo e che rende difficile affrontare progetti a lungo termine. C’è anche una maggior libertà di postporre la scelta, grazie per esempio ad una maggior informazione sul social freezing: valuterò poi, ora ho altre priorità. Di fatto “scelta” oggi è una parola cruciale, perché questa è una generazione che lascia più spazio a percorsi di vita che non prevedono la genitorialità».

Il punto ormai è il fatto che la coorte delle potenziali madri è già piccolissima?

Il numero delle potenziali madri è quello: quel numero è reversibile solo se si affronta il tema delle migrazioni. Incidere sul tasso di fecondità tramite le politiche è oggettivamente difficile. L’idea di base è smettere di sorprenderci e iniziare a ripensare la fiscalità in modo da tenere conto di questo vuoto. Avremo una popolazione di anziani, con una necessità di cura molto ampia. Anche l’aumento dell’aspettativa di vita conferma che quella è la direzione. Un sistema pensionistico che si basa sulla forza lavoro attualmente attiva a fatica reggerà. Nel breve, non nel medio termine.

La Sardegna sta sotto un figlio per donna…

La Sardegna ha una storia particolare. La contraccezione sì si è diffusa prima che nel resto d’Italia e la regione ha visto una contrazione delle nascite già decenni fa. Ha una dinamica demografica a sé, dove c’è una questione strutturale legata all’economia per cui nelle aree non urbane in generale la fecondità è più bassa, ma anche una componente culturale legata al femminile e alla non maternità come scelta. Il Trentino d’altra parte ha indicatori più alti di partecipazione delle donne al mercato del lavoro ma questo non è legato necessariamente a una de-tradizionalizzazione dei ruoli, c’è molto part time tra le donne e anche una forte categorizzazione del lavoro femminile in alcuni ambiti.

Dobbiamo rassegnarci a essere un paese di vecchi?

Lo siamo già. Non c’è prospettiva di inversione di questa tendenza. Però questa può essere anche l’occasione per rivalutare anche dal punto di vista economico il lavoro di cura, per agire sullo squilibrio che oggi c’è in questo ambito, sia rispetto al tema della partecipazione – prevalentemente se non esclusivamente femminile – sia in termini di retribuzioni.

Alessandra Minello, demografa

Eppure questo governo ha sempre dichiarato di voler mettere al centro la natalità. Perché le politiche messe in campo non stanno funzionando?

È chiaro che dei bonus una tantum non spostano nulla e comunque c’è anche la libera scelta di non avere figli. È vero invece che una valorizzazione dei percossi lavorativi dei giovani, garantendo maggiore reddito e maggiore stabilità, potrebbero stimolare le scelte di chi il desiderio di un figlio ce l’ha. L’investimento nei servizi – in particolare nei nidi – è stato molto decantato ma non si è concretizzato: ma ripeto, bisogna tenere conto del tema che i figli sempre più spesso non rientrano nel piano di vita delle persone.

Colpisce anche l’aumento dell’emigrazione.

Nel momento in cui non vado a rinforzare le prospettive, in termini di stipendi e di mercato del lavoro, se l’Italia è l’unico Paese in cui gli stipendi non crescono, se non si danno opportunità di valorizzazione e di ritorno dell’investimento fatto con l’istruzione… è normale andare a cercare opportunità migliori in un contesto globale in cui il movimento è semplice e c’è ormai la flessibilità di pensarsi al di fuori del proprio nucleo famigliare.

Si è tornati infatti a parlare tanto in queste settimane di Dink, cioè Double Income, No Kids.

Tutti gli indicatori dicono che le famiglie senza figli sono quelle meno a rischio povertà. È chiaro che una parte di quelle famiglie ha vissuto anche un percorso doloroso in cui in figlio è stato cercato e non è arrivato, non è che tutti lo hanno scelto. Ma d’altra parte è innegabile che ci sia questa componente di beneficio economico per chi non ha figli, che diventa sempre più marcata. La distanza cresce.


Il mood quindi non può che essere quello della rassegnazione?

No, il mood è quello di prendere atto dei trend reali e agire. Sarei più propositiva, perché ci sono tanti ambiti su cui è possibile farlo. Il punto però è qual è l’obiettivo. A mio giudizio l’obiettivo non dovrebbe essere aumentare la fecondità, ma aumentare il benessere. Come lo aumentiamo? Andando a proteggere i nuclei più in difficoltà, andando a proteggere le generazioni più giovani, portando il trattamento economico agli standard degli altri Paesi.

Una cosa da fare subito?

Senza subbio quest’ultima, adeguare gli stipendi. E prestare attenzione alle esigenze delle giovani generazioni, perché in un contesto così squilibrato in termini di popolazione, c’è il forte rischio che tutte le attenzioni e le politiche siano schiacciate sulla fascia di popolazione numericamente più consistente, con i giovani che perdono peso.  

Foto di Hu Chen su Unsplash

Si può usare la Carta docente per abbonarsi a VITA?

Certo che sì! Basta emettere un buono sulla piattaforma del ministero del valore dell’abbonamento che si intende acquistare (1 anno carta + digital a 80€ o 1 anno digital a 60€) e inviarci il codice del buono a abbonamenti@vita.it