Mondo
Sarajevo rinasce parlando italiano
A Sarajevo,la città che ricomincia a vivere tra infiniti problemi, lazione degli italiani è fondamentale.
Ci sono anche gli ?spaghetti mafiosi? sulla lista del ristorante italiano più famoso di Sarajevo, un locale alla moda con una decina di tavoli al primo piano di un palazzo bucherellato dai kalashnikov. Acciughe, olive e capperi e un buon sugo di pomodoro da gustare con un bicchiere di Chianti e il sottofondo delle canzoni di Eros Ramazzotti. La più gettonata, ?Terra promessa?, il sogno di fuggire dalle borgate di periferia verso un mondo diverso. L?Italia, per esempio. I ragazzi delle borgate di Sarajevo sognano l?Italia, ma intanto la incontrano per le strade, nel tricolore sui blindati dei soldati, sugli adesivi appiccicati alle auto delle nostre organizzazioni umanitarie. Ci sono molti italiani e c?è molto di italiano qui, a tre anni dalla fine della guerra, per le strade costellate di pizzerie, nelle caserme piene di carabinieri, nei centri di cooperazione. In Bosnia gli italiani hanno riversato 8 milioni e mezzo di dollari di aiuti tramite 300 enti (120 associazioni, 160 comuni, 7 regioni, 10 province, decine di gemellaggi) e sono gli unici, come riconoscono tutti, a raggiungere serbi, croati e musulmani, sempre, senza distinzioni. Adesso come in guerra, adesso che le distinzioni pesano esattamente come allora.
Manca una generazione
«Capire Sarajevo è impossibile, spiegarla, inutile. Tanto vale prenderla com?è e cercare di dare una mano». Natasha Berlincioni, padre fiorentino e madre serba, la Bosnia la conosce bene: è qui come volontaria dell?Ai.Bi., l?Associazione amici dei bambini che a Sarajevo ha costruito quattro parchi gioco, un?oasi per mamme e bambini e cinque centri per giovani. «La cosa da fare subito è fermare l?emorragia dei ragazzi che se ne vogliono andare. Qui sono rimasti quelli di 20-25 anni. I più grandi non ci sono già più. A Sarajevo manca una generazione: trovare un trentenne è quasi impossibile». Tutti fuggiti in cerca della terra promessa, in Italia, in America, in Canada, in Australia; tanto che il governo bosniaco ha ideato una campagna di pubblicità sociale per scoraggiare le emigrazioni. «Perché», si legge sui manifesti, un giovane bosniaco («laureato in ingegneria») deve essere costretto a fare il meccanico a Detroit?
Già, ma «perché» restare a Sarajevo e essere costretti a non fare nulla, non lo può spiegare il governo. E allora ci provano Natasha e i suoi amici, Luca, Giovanna, Dario, Ivano. Protagonisti di alcuni degli oltre 100 nostri progetti di cooperazione nell?enclave umanitaria più grande del mondo, la Sarajevo del dopoguerra che ospita 465 ong (una ogni 800 abitanti), e 10 mila soldati Nato, di cui 2000 italiani che per una volta comandano davvero. Sono loro i custodi di una pace molto fragile. «Qui appena ce ne andiamo scoppia di nuovo l?inferno» dice il capitano Sergio Tamai, reggimento Lagunari di Venezia, due anni di Sarajevo alle spalle. «Vorrà dire che staremo qui altri venti o trent?anni, finché non crescono i bambini che le cose più brutte non se le ricordano più». Chissà se trent?anni basteranno perché Miro non sudi più di tensione percorrendo la strada da Sarajevo a Pale, 20 chilometri che separano la Bosnia dalla Repubblica serba, da dove i nemici gli sparavano addosso.
A Pale, terra dei cattivi
Miro fa l?autista per l?Ai.Bi. Ha 24 anni ed è croato, un ?clean croat?, croato puro, come dicono a Sarajevo. Durante la guerra si era arruolato nell?esercito nazionalista e combatteva contro i serbi. Oggi è la prima volta che torna a Pale nonostante tre anni di pace. Venti minuti di strada, niente più check point, ma la frontiera invisibile è ancora più profonda, tanto che al ritorno davanti al cartello Sarajevo Miro picchia la mano sul volante, felice, e sorride. La guerra a Pale non ha fatto crollare case. Ma ha bloccato l?economia, il turismo e le piste di sci delle Olimpiadi ?84, dove gli alberghi ora ospitano i profughi serbi in fuga dalla Bosnia. A Pale i giovani non hanno lavoro, ma gli aiuti internazionali non arrivano: qui ci sono i ?cattivi?, i serbi, la leggenda metropolitana di Sarajevo vuole che il genocida Karadzic sia nascosto in uno qualsiasi dei tanti chalet della pineta con il tetto a punta, e si dia al giardinaggio.
Gli italiani però ci sono con un centro giovanile che offre corsi di lingua, informatica, musica e pittura a 200 ragazzi dai 15 ai 20 anni. Luca Curci ha 28 anni, è di Milano e insegna italiano a 50 allievi diligentissimi. Il suo corso ha dovuto respingere decine di iscrizioni per mancanza di spazio. «L?Italia è bella, come la Bosnia prima della guerra» dice Tanja, che è stata a Milano e ora vive a Pale dopo essere scappata da Sarajevo. «Tornare a casa mia? No, non posso. Anzi non voglio. Lì ci odiano tutti». Poche settimane fa i volontari italiani hanno organizzato un incontro tra i giovani di Sarajevo e quelli di Pale. Erano tutti d?accordo nel vedersi e provare a superare tre anni di silenzi e rancore. «Volevamo incontrarli e insieme avevamo paura» racconta Vesna. «Non è andata male, ma ci sono ancora tante, troppe cose di cui non possiamo parlare. Abbiamo discusso del più e del meno, è stato abbastanza irreale».
Le mine a scuola
Se la strada di Pale conserva i suoi fantasmi ereditati dalla guerra, Sarajevo fa paura ancora oggi. È un città pericolosa. Nei quartieri, attorno agli edifici pubblici, nei giardini sono sepolte centinaia di mine e granate inesplose. E anche nello sminamento il ruolo degli italiani è centrale. Grazie al contributo della catena di supermercati Euromadis di Milano, ad esempio, i bambini delle elementari del sobborgo di Stup possono di nuovo giocare sul prato davanti alla scuola. La ong ?Norvegian people aid? di Oslo l?ha sminato centimetro per centimetro, come ha fatto per altri 140 mila metri quadri della città, trovando, da gennaio a giugno, 800 granate, 90 mine antiuomo e 16 mine anticarro. Una goccia nel mare, visto che in Bosnia si trovano ancora 1 milione di ordigni. Moltissimi di fabbricazione italiana. Ma i bambini di Stup non lo sanno. Davanti alla scuola hanno preparato una cerimonia di ringraziamento, le ragazzine più grandi ballano in stile Spice Girls, i più piccoli battono le mani. Poi Evelina, 11 anni, prende la parola: «Grazie per averci restituito il prato davanti alla scuola. Ma quando sminate quello dietro?». «Sono stato in Cambogia, in Kurdistan, in Mozambico» testimonia il coordinatore del progetto, Mats Eriksson. «Ma non avevo mai visto un campo minato nel cortile di una scuola».
Con Eros in giro per la città
Anche lo stadio Grbavica durante la guerra era circondato dalle mine. Nei mesi più bui si era anche trasformato in un enorme cimitero. Da qui i cecchini serbi tiravano sulla città. Ma oggi ospita una partita della Nazionale Cantanti contro una squadra di artisti bosniaci. Altri italiani a Sarajevo, anche se solo per un giorno, a favore di un progetto del Comitato sostegno a distanza: un centro per bambini orfani di guerra e le loro madri. I cantanti sono colpiti, emozionati, i soldati italiani li chiamano, li bersagliano di flash, si avvicinano come ragazzine coi taccuini in mano per chiedere autografi. «È come Roma nel ?45» dice Andrea Mingardi guardandosi attorno. Mogol si avvicina al comandante dei carabinieri e si informa, chiede com?è la situazione. Poi riflette: «Siamo venuti in punta di piedi, questi ragazzi per noi sono maestri di vita. Loro sanno che cos?è la morte quindi hanno imparato anche che cos?è la vita». «Siamo poeti, ci emozioniamo» dice Riccardo Fogli. «Ma cerchiamo di approfondire i problemi, la situazione dei Paesi in cui giochiamo, contattiamo le associazioni che ci raccontano i bisogni di chi sta sul campo». «Quello che facciamo può essere poco per noi» aggiunge Enrico Ruggeri. «Ma non lo è per chi riceve i frutti del nostro impegno». Un impegno condiviso dall?associazione modenese Rock no war di Paolo Belli, ex Ladri di biciclette. Loro a Sarajevo hanno appena consegnato due Tir carichi di 150 quintali di aiuti a Sprofondo, un?altra ong italiana.
Ma c?è anche Eros Ramazzotti. Arrivato da Francoforte sul suo aereo privato, prima di andare in albergo a riposare vuole fare un giro, vedere la città. Osserva le macerie, il cimitero di guerra pieno di croci bianche. «Mi dispiace non essere venuto prima» ci dice. «Spero di tornare qui a fare un concerto, anche gratis». Il pubblico certo non gli mancherebbe. Lo sai Eros che qui tutti cantano ?Terra promessa?, il sogno di fuggire via? «E ci credo, anch?io a vent?anni volevo andarmene da Roma, sognavo l?America, e non c?era mica stata la guerra. Tutti i giovani sognano un mondo diverso, poi qualcuno se ne va, gli altri restano. Io spero che questi ragazzi possano restare e ricostruire, se gli diamo una mano ce la faranno».
Divertirsi e costruire
La Nazionale cantanti da quest?anno inaugura una ?tournée della solidarietà? all?estero che ha Sarajevo come prima tappa. Niente male per una squadra di amici che si divertono… «Noi non siamo l?Onu né Clinton» sorride Eros. «Non abbiamo molto potere, ma cerchiamo di arrivare dappertutto, dove ci chiamano. Diamo un contributo, cerchiamo di sensibilizzare le persone, di far capire che certi problemi esistono. Se poi facciamo anche divertire, meglio così».
C?è l?Italia, non c?è odio
Ed eccoli qui, parte dei 50 miliardi che la Nazionale Cantanti ha raccolto in 17 anni di attività. Grazie alla partita del Cuore di giugno, a Cagliari (2 miliardi, record assoluto di raccolta fondi) oltre 60 madri sole – vedove o vittime delle violenze dei soldati – e i loro bambini possono frequentare un centro multiservizi a Ilidza, periferia di Sarajevo. Un asilo per i bambini e per le mamme disoccupate (il destino dell?80% delle loro concittadine) corsi di catering e puericoltura. Giovanna Li Persi è una giovane volontaria dell?Ai.Bi., viene da Ragusa e questo centro per le madri l?ha visto venir su dal nulla. È lei la responsabile del progetto, lei è andata a cercare nell?approssimativa anagrafe di Sarajevo le donne-capifamiglia, lei le ha stanate casa per casa. «Giovanna mi ha convinto», «Giovanna dice che il mio tempo non è finito»: questo le hanno detto le ?sue? mamme consegnandole un mazzo di fiori il giorno dell?inaugurazione.
«Al centro ho trovato nuove amiche, è l?unica cosa che mi rende felice» dice Memija Bedrija, 36 anni, due figli di 14 e 15 anni e un marito morto in guerra. «Qui almeno non c?è odio». Grazie agli aiuti arrivati dall?Italia, ma anche alla voglia di rinascere che comincia a infettare la società bosniaca. «È impossibile fare cooperazione senza partner sul posto» conferma la responsabile della cooperazione italiana in Bosnia, Margherita Paolini, qui dal 1992. «L?emergenza è finita, occorre un salto di qualità anche negli aiuti. Non più provvedimenti tampone, ma progetti di ampio respiro che possano decollare da soli, senza l?apporto degli stranieri».
Certo non è facile. Delle 60 madri che hanno frequentato i corsi del centro di Ilidza, ad esempio, nessuna ha ancora trovato un lavoro. «Le donne musulmane stanno in casa» scandisce Serifa Skriely, 38 anni, i lunghi capelli neri raccolti sotto il velo. «Da quando mio marito è morto, niente è più come prima. Vivo solo per i miei figli. Ho la pensione, non è molto ma mi accontento». È felice? «No, ma sto meglio. Non sono sola». Una speranza? Serifa si illumina. «Mio figlio più grande ha 17 anni, è bravissimo a giocare a basket. Spero che una squadra straniera lo noti e gli faccia un contratto. Così ce ne andiamo tutti in Italia».
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