Volontariato

Sarajevo, questa città è tutta una poesia

La capitale bosniaca è diventata una straordinaria fucina letteraria

di Daniela Verlicchi

«La guerra genera un?aspra battaglia per sopravvivere e per scrivere. La poesia è proprio questo: un grido immediato, il desiderio più puro di vivere». Spiega così Senadin Musabegovic, poeta e autore del recente La polvere sui guanti del chirurgo (Infinito Edizioni), la rinascita letteraria di Sarajevo, «se di rinascita si vuole parlare». Sarajevo, capitale della poesia lo è da molto tempo: «È erede della grande tradizione letteraria slava», secondo la definizione di Erri De Luca. Ma da qualche anno è celebrata come tale da una serie di incontri letterari.

Dal 28 al 30 settembre nella capitale bosniaca si svolgerà la sesta edizione degli Incontri internazionali di poesia, organizzati dall?ambasciata italiana e dalla Casa della poesia di Salerno. Un?occasione per un pubblico internazionale di scoprire cosa si muove nel vasto panorama letterario balcanico. Ed è proprio per questo che sono nati gli Incontri, spiega Sergio Iagulli, uno degli organizzatori: «Per fare di nuovo della capitale della Bosnia un riferimento culturale forte nel circuito internazionale». Autori di diversi Paesi europei, riuniti sotto lo stesso tetto, per discutere di poesia. Come sarebbe piaciuto a Izet Sarajlic, uno dei più grandi poeti bosniaci, a cui è dedicata la manifestazione, che ha scritto: «Anche i versi sono contenti quando la gente s?incontra».

Una pietra sulla strada
E la poesia a Sarajevo non può prescindere dall?esperienza della guerra appena trascorsa. È come una pietra in mezzo alla strada. Alcuni la scansano, altri ci inciampano ma, che ne parlino o meno, tutti devono farci i conti. «Sarajevo è una città martire del ritorno della guerra in Europa», spiega Erri De Luca che ha scritto la prefazione del nuovo libro di Musabegovic (di cui nel box accanto pubblichiamo uno stralcio). Questo la rende un terreno fertile per le produzioni letterarie. «Solo la poesia riesce a trasformare la miseria, la maledizione e la dannazione in canto. È un miracolo: non so come avviene ma io ne sono affascinato», racconta De Luca. Non può nascere che dalle esperienze di vita dei suoi autori: «Tutti i poeti sono testimoni responsabili della vita. I prosatori possono riempire le loro pagine, inventandosele di sana pianta, i poeti no».

Senadin Musabegovic la guerra l?ha vista in faccia. Durante l?assedio ha difeso la città combattendo nell?esercito bosniaco. E ha cercato di descriverla, Sarajevo, prima in prosa, come giornalista e poi con i versi. Le sue poesie sono cariche di dettagli: scene descritte nei minimi particolari, volti in primissimo piano. Uno zoom insistente sulla realtà che è frutto di una precisa strategia: «Nella mia poesia il mondo si scioglie nei dettagli. E l?obiettivo è creare confusione, far perdere il quadro d?insieme. Durante la guerra molti giornalisti hanno descritto in modo preciso e chiaro una situazione che non aveva nulla di definito e con questa precisione hanno imposto la loro visione delle cose. Io, invece, utilizzo questo stile di scrittura per dimostrare che niente è più chiaro e in ordine».

Bjanka Alajbegovic, invece, appartiene al gruppo di quelli che della guerra non scrivono. Quando è iniziato l?assedio era poco più che una bambina: «Avevo 10 anni», racconta, «e la guerra, con le sue conseguenze pratiche mi ha investito completamente. Vivere a Sarajevo in quel periodo significava guardare la gente negli occhi e leggerci la loro impotenza, sopportare condizioni di vita proibitive, e farsi una ragione delle bombe e del dolore». Di questo non ha mai parlato, quando ha iniziato a scrivere poesie, sei anni dopo. Il suo primo libro, Between the two, mai tradotto in italiano, tratta soprattutto dell?incomunicabilità tra uomo e donna. Perché? «Per me la poesia «è come tornare a casa», spiega, «e la guerra non è esattamente casa mia».

D?altra parte scrivere di guerra è anche un business, spiega Sinan Gudzevic, un altro dei poeti che parteciperanno agli Incontri di fine settembre. Lui è croato e la guerra l?ha vissuta soprattutto attraverso le parole e gli scritti di chi era a Sarajevo, come Izet Sarajlic, un suo grande amico. «Fino a non molti anni fa», spiega, «gli editori ci dicevano: ?Voi, slavi, occupatevi solo di guerra e pubblicheremo i vostri libri?. Oggi l?Occidente sembra disinteressato alla nostra poesia. Ci sono dei veri e propri capolavori che non sono ancora stati tradotti». Colpa delle mode letterarie, è vero, ma anche di un certo apartheid linguistico iniziato proprio con la guerra. «Che ha distrutto uno spazio culturale comune, quello jugoslavo, dove si leggevano gli stessi libri e ci si scambiavano poesie».
Oggi, da Sarajevo, si cerca di riprendere quel discorso interrotto.


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