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Sapeste quant’è buono il caffè a Dar es Salaam

L'economia informale in Tanzania. Nella capitale grazie ad un progetto di microcredito le donne aprono piccole attività commerciali. Che a volte diventano molto grandi

di Emanuela Citterio

da Dar es Salaam

Per le strade di Dar es Salaam sono come un flash dopo l?altro. Pezzi di ferramenta, piramidi di frutta impilata sul banco con senso cromatico, più il là sul marciapiede una macchina da cucire e dietro, nell?interno semibuio del negozietto, un dedalo multicolore di stoffe e modelli. Visti dal fuori (soprattutto se sei un turista ?muzungu?, come chiamano i bianchi in questa parte d?Africa) assomigliano a baracchini di poca importanza. Centinaia di negozietti, piccole attività commerciali e produttive, che si susseguono in fila per le strade della capitale economica della Tanzania. Nel confinante Kenya è lo stesso. Anzi, tutto questo brulichìo è così importante da avere un nome che definisce l?intero settore economico: JuaKali, l?arte del riciclo e, per estensione, tutta la sfera dell?economia informale.

«Noi europei crediamo che l?Africa sia povera e senza risorse, perché non la conosciamo», è la spiazzante affermazione di Francesco Pierli, fondatore dell?Institute of social ministry, che incontriamo all?università Tangaza di Nairobi. A Dar es Salaam, in effetti, bisogna inoltrarsi nelle viscere della città per sapere di cosa vive la stragrande maggioranza della popolazione (il 90 per cento secondo le statistiche dell?Organizzazione mondiale del lavoro): negozietti e baracchini si fanno sempre più fitti man mano che ci si allontana dal centro, che resta occupato dagli edifici pubblici, dagli uffici e dalle banche.

Per vedere da un?altra prospettiva ci vuole una guida, e la nostra è Simon Yoanna, tanzaniano, 52 anni, responsabile di Mapato (Microcredit against poverty and aids for Tanzania opportunities), un progetto di microcredito che ha puntato sulle potenzialità di questo modo africano di fare economia. La passione per il suo lavoro si capisce da come guida: continuando a raccontare mentre l?auto sobbalza in una specie di slalom fra le buche della strada che conduce in uno dei quartieri periferici della città.

A smentire l?afropessimismo, a pochi chilometri a nord dal centro, è un profumo di cibo appena cucinato. Proviene da tre pareti aperte su una via, in muratura, l?interno pulito e ordinato, un arredamento essenziale composto da un bancone e quattro sedie. È il negozio di Rose, alta, robusta, sulla quarantina. A gennaio di un anno e mezzo fa ha ricevuto il primo prestito: 80mila scellini tanzaniani, circa 50 euro. Con questi soldi ha affittato il piccolo locale in cui ci troviamo facendone una ?cafeterìa?, un punto d?appoggio che offre a lavoratori e gente di passaggio un pasto caldo a un prezzo contenuto.

A distanza di un anno e mezzo Rose, sposata con tre figli, gestisce con sei collaboratori quattro attività contemporaneamente. Oltre alla ?cafeterìa?, un servizio di catering per un?azienda del centro, un altro di decorazioni per feste e la vendita di carbone per cucinare. Ha restituito via via i prestiti ottenuti e ora dispone di un budget di 1 milione e 400mila scellini con cui continua a gestire quella che è diventata una piccola impresa.

A spiegarci come funziona è Simon: «Le donne che partecipano al progetto ricevono il primo prestito, se lo restituiscono accedono al secondo livello e quindi a un altro prestito, più alto, e così via, man mano che la loro attività produce ricavi». Sono 360 le donne che partecipano al programma Mapato, partito nel ?99 con un finanziamento di 200 mila euro della Caritas di Padova e con il supporto dell?organizzazione italiana Medici con l?Africa-Cuamm. Con un particolare: 100 di loro sono sieropositive. «Si pensa che investire su una persona che ha davanti a sé la malattia e la morte non serva a nulla», afferma Simon. «Ma noi partiamo dal presupposto che una donna con l?Hiv è viva! Chiediamo solo che una persona della sua famiglia la affianchi nell?attività per cui le diamo il credito. In modo che, nel caso lei si ammali o muoia, magari lasciando dei figli, qualcun altro possa andare avanti e farsi corresponsabile della situazione». Mapato lavora in stretto coordinamento con ?Pasada?, il programma di lotta all?Aids della diocesi di Dar es Salaam e con il progetto di Medici con l?Africa ?Nascere senza Aids?, contro la trasmissione del virus da mamma a bambino.

Il microcredito in Tanzanzia ha una storia a parte rispetto agli altri Paesi africani: non solo affonda le sue radici nella tradizione locale ma, al tempo del socialismo di stato del presidente Julius Nyerere, una forma analoga di prestito pubblico veniva promossa direttamente dal governo. Oggi il microcredito gode di un?attezione particolare da parte delle istituzioni. Ogni organizzazione è registrata. Ma l?aspetto più interessante è l?esistenza di un network fra società profit e non profit, nato con lo scopo di incrociare i dati e sviluppare strategie in questo settore.

«Uno dei passaggi cruciali è avvenuto all?inizio degli anni ?90», ricorda Simon. «Il sistema socialista era finito, il 40 per cento dei dipendenti degli uffici pubblici fu licenziato, poi toccò alle compagnie parastatali. Le aziende furono via via privatizzate. Mi ricordo gli uomini in giro per le strade a Dar es Salaam senza lavoro, e le donne che cercavano di inventarsi qualche attività per dare da mangiare ai figli. Allora lavoravo per la diocesi di Dar, ci interrogavamo su cosa fare e decidemmo di supportare il settore dell?economia informale». Ma perché puntare sulle donne? Aisha, 50 anni, ogni mattina va a prendere pesce fresco al porto di Dar e lo rivende cucinato nel suo quartiere: «Ho quattro figli» dice, «con questi soldi posso mandarli alla scuola superiore».

Ettore Boles, cooperante
Le ong lavorino di più a costruire microimprese

È critico sul proliferare dei progetti assistenziali in Africa. 40 anni, sposato con una figlia adottata dall?Etiopia, Ettore Boles è responsabile amministrativo di Medici con l?Africa, una ong che può vantare una presenza storica e continuativa in Tanzania. Alle spalle, dieci anni di impegno nel volontariato internazionale e nella cooperazione.

Vita: Cosa servirebbe, secondo lei?
Ettore Boles: Meglio sarebbe puntare sulla formazione, per esempio con corsi seri su come organizzare una microimpresa.

Vita: Il microcredito funziona?
Boles: Qui ha dato buoni risultati.
Di certo non è la panacea a tutti i mali. è inutile nascondersi che sono gli aspetti macroeconomici a fare la differenza per un Paese. è un piccolo segnale, bisognerebbe dargli un volano.

Vita: Invece?
Boles: Invece il massimo per un giovane di Dar es Salaam o di Nairobi è trovare un posto fisso in un?organizzazione non governativa. Il problema è che molte contribuiscono a perpetuare una mentalità assistenziale.

Vita: Qual è allora il ruolo della cooperazione internazionale?
Boles: Noi cerchiamo di fare il pezzo che manca, affiancandoci alle persone di qui. Non è un lavoro facile. Oggi più di ieri funziona se fatto con intelligenza, oltre che con il cuore.

Info: www.mediciconlafrica.org

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