Politica

Sapeste quanta vita c’è nella vita vegetativa

Vicenza, viaggio in una delle Unità cerebrolesi più organizzate d’Italia.

di Sara De Carli

Erika ha quattro anni. Con un pennarello rosso disegna il suo papà. È sdraiato in un letto, dorme, e fa la pipì in un sacchetto. Il papà di Erika da sei mesi è in stato vegetativo, e lei da allora non lo ha più visto. Il disegno è appeso sulla porta dello studio del dottor Mario De Marco, psicologo dell?Unità operativa gravi cerebrolesi di Vicenza: con lui Erika si sta preparando al primo incontro con il papà. Quando lei lo chiederà, le infermiere lo vestiranno con la tuta più bella e lo porteranno in palestra. Lei deciderà chi potrà entrare, sarà libera di restare sulla porta o di accarezzare la mano del suo papà addormentato.
Erika è una dei venti bambini che negli ultimi quattro anni hanno partecipato al progetto che l?Unità gravi cerebrolesi di Vicenza dedica alle famiglie dei propri pazienti. Perché «se la vita gliela salviamo, garantiamo poi che sia dignitosa, per loro e per le famiglie», sintetizza la dottoressa Feliciana Cortese, il primario.
Quella di Vicenza è l?unica struttura pubblica del Veneto ad accogliere persone con danni cerebrali ingenti nella fase acuta, cioè immediatamente dopo il coma e la rianimazione. Pazienti generalmente giovani, poiché nel 70% dei casi arrivano qui dopo un trauma cranico legato a un incidente stradale o sportivo.

Il cardine del recupero
Nei loro confronti la sfida, sia nell?ottica del recupero sia in quella della cura, non è la gestione clinica, ma quella umana e relazionale. «Nei traumi cranici la famiglia è il cardine del recupero», insiste la dottoressa Cortese. «Dobbiamo essere umili e non nasconderci dietro una diagnosi. Pochi mesi fa, dopo un anno, ho rivisto una nostra ex paziente. Era arrivata qui con una diagnosi di stato vegetativo senza possibilità di evoluzione, dopo tre mesi è diventata un ?minimal responder?, e oggi comincia a verbalizzare».
In queste situazioni non è facile capire cosa voglia dire un?espressione come «curare le dinamiche relazionali». L?immagine che usa la dottoressa Cortese è quella di un bambino nella pancia della mamma: c?è una comunicazione intima e fittissima, che non è fatta di parole. Così una persona in stato vegetativo: chi gli è vicino impara a tessere una comunicazione silenziosa, che agli occhi iperscettici degli estranei sembra rasentare la follia. Invece ci sono parametri oggettivi: il ritmo del respiro, il battito cardiaco, la sudorazione.
C?è uno studio in corso, qui a Vicenza: da due anni le persone che passano in questa unità vengono monitorate con la Pet Scan, che consente di rilevare il metabolismo cerebrale. È troppo presto per parlare di risultati, ma la dottoressa Cortese non ha paura di sbilanciarsi: «Noi medici abbiamo il dovere di chiarire all?opinione pubblica che lo stato vegetativo non è equivalente alla morte cerebrale. Pur non avendo la possibilità di comunicare, questi pazienti hanno un cervello che funziona: c?è un consumo di glucosio, le aree del dolore si attivano, c?è un normale ritmo di sonno e veglia, le reazioni cerebrali sono diverse in presenza della voce di un famigliare o di un estraneo».

Tra suocera e nuora
Ma nonostante tutto, questo è il punto su cui oggi le risposte sanitarie e assistenziali saltano. «Le famiglie sono abbandonate a loro stesse, soprattutto nel momento delle dimissioni dall?ospedale dopo la fase acuta», denuncia il dottor De Marco. «Lì si consuma la rottura fra il coniuge e i genitori del paziente: la madre vorrebbe portarsi il figlio a casa, e accusa la nuora che sceglie il ricovero in una struttura protetta. In realtà questa è la soluzione migliore: una famiglia, soprattutto se ci sono dei bambini, non può vivere un lutto per ventiquattr?ore al giorno».
In una stanza dell?unità, cerca di farmi intuire il nodo della questione. Nel letto una donna dal viso tondo, i capelli corti e scuri: «Questa signora ha 36 anni, ed è in stato vegetativo da tre: potrà vivere in queste condizioni per un tempo molto lungo, anche quindici anni. Ha due figlie, due gemelle di quattro anni, che non la vedono da tre anni. Le bambine non avranno una seconda mamma, e lei d?altra parte non smette di essere madre, ha il diritto di esercitare la sua genitorialità».
Per queste due bambine, come per tante altre famiglie che scelgono di non tagliare il filo sottilissimo che le tiene unite, la struttura protetta che ospiterà la madre diventerà una seconda casa: sarà adatta ad esserlo? Avrà spazi, e soprattutto figure di riferimento, in grado di accoglierle e accompagnarle? La dicitura ?struttura protetta? infatti può indicare tante cose: a volte anche un ghetto ritagliato in una casa di riposo per grandi anziani in fin di vita, o dementi.

Risposta sanitaria?
«È necessario ripensare la fisionomia dei nuclei interni alle strutture protette», ribadisce De Marco. «Dal punto di vista dell?assistenza alla persona sono ottimi, ma bisogna rivedere le strutture, il processo riabilitativo e i servizi di sostegno alle famiglie. Per una persona in stato vegetativo persistente ospitata in una struttura protetta, il servizio sanitario nazionale versa 150 euro al giorno, e 20 euro restano a carico della famiglia. Ma se il paziente migliora e diventa un minimal responder, il contributo statale si dimezza, e la retta a carico della famiglia sale a 60 euro. È una risposta sanitaria questa?».
Non lo è. La risposta resta a carico degli operatori, che si sentono soli dinanzi alle domande mute dei pazienti e a quelle sussurrate come in un urlo dai loro famigliari. Come quella della mamma di Paolo, undici anni, in stato vegetativo da quattro, dopo una caduta in bicicletta: «Siamo persone che vivono negli interstizi della vita».

Storia della cooperativa easy
e dopo il trauma, un lavoro

Chi ha una lesione cerebrale da trauma cranico, statisticamente, è un maschio tra i 18 e i 32 anni, vittima di un incidente che avviene nel tardo pomeriggio, il lunedì, all?uscita dal lavoro. Solo il 10-15% di queste persone rimane in stato vegetativo persistente: per tutti gli altri la situazione evolve verso dei danni cerebrali di media o lieve entità. Ma anche per questi ?nati due volte?, con danni cognitivi lievissimi, che si riducono a deficit di memoria, difficoltà di linguaggio o a una insufficiente capacità di controllo emotivo e comportamentale, la vita non è facile. Gli scogli più difficili del processo di riabilitazione sono il reinserimento lavorativo e quello affettivo-relazionale.
Per questo a Vicenza è nata Easy, una cooperativa sociale di tipo B coordinata dallo stesso dottor Mario De Marco: è attiva da tre anni, accoglie 14 ragazzi reduci da un trauma cranico encefalico e lavora nel settore della grafica pubblicitaria e della gestione di eventi. Sono loro, per esempio, che si occupano della promozione del seminario scientifico sui traumi cranici che la Asl di Vicenza organizza ogni anno.
«Sembra un paradosso», ci spiega De Marco, «ma chi ha lesioni cerebrali minori fa più fatica a trovare lavoro di chi ha subito danni importanti. La gente accetta più facilmente dei deficit cognitivi che l?instabilità emotiva: culturalmente niente ci fa paura quanto il doverci relazionare con una persona tanto imprevedibile da risultarci perennemente estranea. Per questo c?è bisogno anche di un grosso lavoro di educazione sulla popolazione».
Info: Cooperativa Easy, tel. 0444.937294; easy.coop@libero.it

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