Economia
Sapelli: «Il riconoscimento a Ivrea? Speriamo sia fucina di nuovi manager»
L’economista, molto legato alla figura di Adriano Olivetti, saluta con soddisfazione l’iscrizione della città a patrimonio dell’Unesco. «Un riconoscimento amaro perché arriva tardi. Ma è anche un segnale. Speriamo che serva»
“Ivrea Città Industriale del XX Secolo” è nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco. La decisione è avvenuta durante i lavori del 42° Comitato del Patrimonio Mondiale che si sta svolgendo a Manama in Bahrein dal 24 giugno al 4 luglio. Si tratta del 54esimo sito italiano. Un riconoscimento che non è solo ad un luogo geografico ma a un intero sistema di pensiero e ad un modo di intendere l’impresa. Ne abbiamo parlato con il prof. Giulio Sapelli che alla Olivetti ha lavorato e che è un olivettiano di ferro.
Professore come ha accolto la notizia?
È certamente una bella notizia. Sono contento. Però…
Però?
In fondo questo riconoscimento è un po’ amaro. Si potrebbe dire che è un’ennesima sconfitta per Olivetti. Lui che era fedele a quel pensiero importante di Simone Weil, quando diceva che la cosa importante della condizione umana è il radicamento, che non basta credere ma che bisogna volere e realizzare. Lui che questo credere, volere e realizzare, lo ha fatto quando era in vita e i primi a non riconoscerlo sono stati la sua famiglia, che era azionista con lui e non hanno continuato su quella strada, alcuni suoi collaboratori stretti e chi l’aveva succeduto. Riconoscerlo oggi è un po’ tardi. Pensiamo che Carlo De Benedetti la prima cosa che fece, dopo essere entrato nella proprietà della Olivetti, e dopo una conferenza in Bocconi e una pagina intera su IlSole24Ore dedicate a distruggere il mito di Olivetti, fu mandare al macero la biblioteca della fabbrica.
Quindi il rammarico per quello che avrebbe potuto essere è più forte della soddisfazione?
No, noi dobbiamo dimenticare gli aspetti negativi e dobbiamo invece pensare che forse questo è l’anticipo di quella speranza che avevamo che un domani le idee di Olivetti si sarebbero potute inverare. Oggi vedo che, mentre nelle grandi aziende queste idee sono sempre meno tenute in considerazione, nelle piccole medie imprese si trattano gli operai come faceva Olivetti. Vedo tanti che fanno opere, costruiscono scuole, danno servizi e mettono in piedi welfare aziendale vero. Vedo insomma che la fiamma di Olivetti ,che con Mattei è stata la grande meteora dell’impresa italiana, in fondo si sta di nuovo riaccendendo. È qualcosa di miracoloso.
Quindi c’è ancora speranza…
L’Unesco realizza quel detto di Charles Peguy, che diceva che la “speranza è una virtù bambina”. Non è cristiano perdere la speranza.
Cambierà qualcosa anche nella grande industria?
Si, perché penso che oggi si sta avvicinando l’ora della verità. Credo che la grande impresa cominci ad avere grandi problemi di reputazione. E non penso possano risolveri con operazioni di cosmesi. La grande impresi si sta sempre più accorgendo che bisogna pensare, non alla Csr, ma fare giustizia attraverso l’impresa.
Come si fa?
Non trattando le persone come schiave e finendola con questi contratti di lavoro a tempo determinatissimo. Penso che abbiamo un grande compito e dobbiamo realizzarlo: serve una nuova generazione di manager e questo riconoscimento dimostra che può nascere. Non fasciamoci la testa. Ma ci sarà bisogno di una grande rivoluzione culturale. Cosa che Olivetti aveva capito: tutto comincia dalla cultura e tutto finisce con la cultura.
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