Lavoro sociale
Sanremo e la disabilità: le parole sbagliate (degli altri) come inciampo (per noi)
Ha suscitato un vespaio di polemiche il modo in cui sul palco dell'Ariston è stata introdotta l'esibizione di alcuni attori del Teatro Patologico. Un approccio pietistico e infantilizzante, è stato detto: ed è vero. Le parole giuste sono importanti, ma parole nuove devono generare cose nuove. E quello spetta a noi, non al Festival

Poche e tutte sbagliate. Che quando le parole le hai centellinate per non allungare eccessivamente i tempi della diretta, è pure peggio. È un po’ questa la sintesi del 75esimo Festival di Sanremo visto da chi si occupa di temi sociali (e in particolare di disabilità), rileggendo i momenti in cui sul palco è stato fatto spazio a questi aspetti della vita, dentro un contenitore che esplicitamente la vita la voleva ricondurre tutta a e solo ai temi delle emozioni individuali e dei sentimenti personali, preferibilmente rosei e positivi, con l’amore sopra tutto.
Sanremo, un incubatore di abilismo
È successo così che Bianca Balti, che aveva rifiutato di salire sul palco con appicciata addosso l’etichetta di “malata di tumore”, sia stata presentata esattamente come “esempio” e come “guerriera”. Che Sammy Basso sia stato ricordato con paternalistici: “una leggenda, anche se pesava una mela” ed “era felice nonostante tutto”. Che nel presentare un’esperienza straordinaria e con trent’anni di storia come il Teatro Patologico la regia abbia indugiato intenzionalmente sui visi delle persone dove la disabilità intellettiva si faceva palese (ma ce lo ricordiamo che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’80% delle persone con disabilità vive una condizione invisibile e invece quando cerchiamo foto per parlare di disabilità dobbiamo ancora sempre accontentarci della carrozzina o della sindrome di Down, perché si vedono?). In questi giorni così si sono giustamente moltiplicati i post e gli interventi in cui si accusa il Festival di essere un incubatore di abilismo, di fare inspiration porn, di moltiplicare gli stereotipi. Jacopo Melio, Valentina Tomirotti, Saverio Tommasi, Lisa Noja… tutti hanno scritto con parole precise e appuntite per denunciare l’inutilità di siparietti di questo genere, anzi il loro effetto deleterio perché non fanno altro che rinforzare gli stereotipi sulla disabilità “coccolosa” a cui fare spazio in maniera condiscendente e non in ottica di diritti; che ci ispirano come esempi di coraggio per ciò che fanno “nonostante” la loro disabilità; che ci consentono per qualche istante di relativizzare i nostri problemi e le nostre lamentele, che ci donano forza con la loro forza (queste ultime due sono quelle che odio di più). Hanno ragione, senza se e senza ma.
Un gioco a cui tutti abbiamo giocato
Eppure, passata una settimana interamente dominata dal Festival, in un gioco che tutti noi che facciamo comunicazione abbiamo giocato, mi viene da chiedermi se abbiamo davvero bisogno della scusa di Sanremo per parlare di fragilità (Lucio Corsi), depressione (Fedez), paternità (Brunori Sas), salute (Bianca Balti), disabilità (Teatro Patologico) per poi fare le pulci al modo in cui quei tre, cinque, dieci minuti – in un contenitore ben preciso – lo fanno.
Non mi fraintendete, non voglio sminuire le critiche, che sono giuste e necessarie. Però adesso, andando a rivedere le foto di Jovanotti che tiene per mano Sammy Basso come se fosse un bambino di cinque anni, mi vien da pensare che pure lui poteva accusare Lorenzo di trattarlo con paternalismo e di infantilizzarlo e invece non lo ha fatto. E siccome sono certa che Sammy fosse troppo intelligente per non aver fatto una valutazione di questo tipo, non posso far altro che ritenere che abbia scelto di non farlo: ovviamente non posso sapere se perché quella dinamica non c’era (anche se a noi ora dalle foto sembrerebbe) o se perché consapevole che tanto lo show si mangia tutto e che l’unica regola che vale è “the show must go on” (preferibilmente in tempi brevi, come dice Conti).
Il dibattito (rovente) giù dal palco
«Avevamo veramente bisogno di questa performance? Senza nulla togliere al lavoro egregio che fa il Teatro Patologico, tutto ciò risponde all’esigenza che abbiamo come società di vedere le persone con disabilità in questo modo: un pensiero escludente, una cosa speciale. È il mantenimento della nostra comfort zone», ha scritto Giorgia Sordoni, presidente della Società Cooperativa Sociale Centro Papa Giovanni XXIII. Quel momento, aggiunge al telefono, è stato «come trasportare una persona in un paese straniero, dove si parla un’altra lingua». L’effetto è consolidato: «Le nostre coscienze in quel modo sono a posto. Piuttosto che modificare le nostre politiche per l’inclusione, concedere i giusti supporti, cambiare la testa dei nostri governatori, costruire città diverse, non discriminare, cambiare i contesti, riconoscere una cittadinanza vera a tutti». E qui andiamo al punto. E allora a me più che l’esibizione di Sanremo (che non mi ha nemmeno emozionata per quanto ero irritata, effettivamente) pare interessante tutto il dibattito che da allora sta avvenendo giù dal palco, compreso il coté di quella che qualcuno ha già definito «indignazione adesiva e imitativa».
Non bastano le parole per cambiare le cose
Da questo punto di vista, quello che mi ha colpito di più sono le critiche mosse allo stesso Dario D’Ambrosi. Al fatto che il Teatro Patologico abbia un “nome che è tutto un programma”, per esempio: ma è una realtà nata negli anni Ottanta, non ieri. Ci sono una miriade di realtà nate in quegli anni che si portano nel nome le parole che si usavano in quegli anni. Solo per fare un esempio, la legge 104 del 1992 è la «legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate» e la parola handicappato dalle leggi e dagli atti ufficiali l’abbiamo messa al bando solo il decreto 62 del 2024. Conti ha presentato gli attori come persone che “soffrono di disabilità”, che lo sanno anche i sassi che non si dice. È pure vero che il Teatro Patologico fa esattamente teatroterapia, sia con persone con disabilità intellettiva sia con persone con una malattia mentale. Persone che hanno bisogno anche di terapie e cure, altrimenti potremmo chiudere serenamente domani un mucchio di servizi. L’errore casomai è quello di confondere terapia e inclusione, di spacciare una cosa per l’altra.
Ma veniamo a D’Ambrosi, che parlando dell’attività del Teatro ha usato il verbo «salviamo». Qui sono sobbalzata, lo ammetto, così come mi è suonato stonato l’accento che poi ha posto sui familiari e sul loro benessere, prima e più che sul benessere delle persone con disabilità stesse. Ex post possiamo solo riflettere su quanto certi stereotipi siano introiettati dentro tutti noi e su quanto ne siamo inconsapevoli, ma anche di quanto usare le parole sbagliate non precluda la possibilità di incidere in positivo sulla vita di tante persone. Allo stesso modo, al contrario, il fatto di provare ad usare le parole giuste non ci mette al riparo dal fatto di non impattare per nulla (qui ovviamente parlo solo per me e per nessun altro, sia ben chiaro).
È stato anche messo sotto accusa per aver detto che “la vita senza di loro sarebbe una noia pazzesca”: ha sbagliato, si legge sui social, proprio lui, una persona che dovrebbe invece combattere contro un certo linguaggio. Davvero ha sbagliato? Conosco un’infinità di professionisti e di operatori che lavorano tutti i giorni al fianco di persone con disabilità e che dicono pressoché la stessa cosa, non nel senso che la disabilità (degli altri) sia un dono (per sé), ma nel senso che alle persone con cui passano le giornate si affezionano, che non si fermano alla professionalità, che ci mettono amore e non solo competenza. E tutto questo le persone e le famiglie glielo riconoscono come un valore, anche se poi magari quando parlano usano la parola “ragazzi” pure se questi hanno 45 anni. È stato un momento brutto, sì. Pure un’occasione sprecata e giocata male, d’accordo. Ma giustamente Laura Coccia ha scritto «conosco e apprezzo questa esperienza da anni, è sbagliato giudicarla per dieci minuti sul palco». Sono d’accordo.
Il cambiamento necessario
Davvero quindi oggi siamo qui «a fare i conti con le macerie» che Sanremo ha generato con il suo «uragano disimpegnato e violento», come scrive nel suo comunicato Al Di Qua Artists? Ci dimentichiamo tutti tutto in un nanosecondo, ma se proprio dobbiamo fare una gara, credo che abbia lasciato più macerie la frase di Trump su fatto che gli incidenti aerei accadano per colpa dell’inclusione lavorativa.
Il tema sollevato da quell’esibizione a Sanremo, passata l’emozione o la rabbia, allora qual è? Non è il Teatro Patologico né il Festival, continua Giorgia Sordoni, ma «cosa sia inclusione, che non è creare un contesto speciale per persone speciali. Altrimenti tutto finisce con un fondo più o meno ricco per aiutare le persone fragili. Il punto oggi è cambiare le parole non per velleità ma per cambiare le rappresentazioni e i contesti: gli approcci in cui si allestiscono scenografie per la specialità – parlo della vita quotidiana, non solo di Sanremo ovviamente – non vanno più bene. Occorre cambiare i contesti nella direzione della cittadinanza e dei diritti. Oggi dobbiamo investire risorse per rendere tutti cittadini».
Le parole e le cose
«Non bastano le parole per cambiare le cose, nel bene e nel male. Non basta dire parole mal interpretabili, sbagliate e offensive sul palco dell’Ariston per distruggere ciò che fa da anni il Teatro Patologico né per gettare all’aria il fatto che nel corso degli ultimi cinquant’anni la rappresentazione sociale e culturale della condizione della disabilità siano cambiate», commenta anche Marco Bollani, direttore della cooperativa sociale Come noi, ente a marchio Anffas e consigliere regionale di Federsolidarietà Lombardia. «Pur con tutte le contraddizioni, gli stop and go, i passi falsi… si sta costruendo in Italia un futuro di cittadinanza più inclusivo per le persone in condizione di disabilità. Le parole sbagliate devono essere l’inciampo per capire che dicendo meglio ci educhiamo e ci aiutiamo a pensare meglio ciò che serve oggi per costruire una cittadinanza più inclusiva: questi inciampi del linguaggio allora possono “valere oro” perché ci aiutano ad agire per cambiare le cose che oggi possiamo e dobbiamo e cambiare, come i servizi, l’accessibilità, le politiche. Una parola sbagliata in quel contesto vale tanto, ma di sicuro vale meno delle ridotte possibilità di accesso all’Arsiton per le persone in condizioni di disabilità che avessero voluto assistere in diretta ad una delle serate. Allora come si organizza una società a partire dall’accessibilità dei luoghi pubblici? Quali opportunità di vita indipendente per le persone in condizione di disabilità intellettiva? Sono temi che richiedono cambiamenti culturali ma anche scelte operative nuove e concrete nel fare o non fare ciò che si è sempre fatto in un certo modo».
Questo spetta a noi
La verità è che siamo dentro un momento di svolta. Chi ha iniziato a lavorare sulla disabilità quarant’anni fa si porta dentro parole e approcci nati in un altro momento storico. Ma quel momento storico è stato disruptive, ha saputo fare spazio al desiderio, sognare e creare nuovi servizi, generando nuove opportunità per le persone con disabilità. Oggi è il momento in cui le persone con disabilità prendono direttamente parola e questo cambierà molto, forse tutto. Grazie quindi a Lisa, Jacopo, Valentina e a tutti quelli che si sono indignati.
Al tempo stesso però occorre come società e come Terzo settore ritrovare lo slancio per immaginare cose nuove, per sperimentare, per creare opportunità, al di là delle rivendicazioni oggi sempre più polarizzate tra chi chiede soldi e chi chiede servizi. Perché quel motto stracitato di Walt Disney, “se puoi sognarlo puoi farlo”, è una bugia senza un contesto che ti permetta di far fiorire i tuoi sogni.
Ci serve che parole nuove generino cose nuove. E questo spetta a tutti noi, non al Festival. Che alla fine è soltanto quello, un festival della canzone.
Dario D’Ambrosi e gli attori di Teatro Patologico durante l’esibizione al Festival di Sanremo 2025. Foto di Marco Alpozzi/LaPresse
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.