Salute

Sanità, Ricci (Bocconi): «Ok tariffe ma ecco gli altri nodi»

Con il coordinatore dell’osservatorio Oasi del centro di ricerca Cergas, Sda Bocconi, ci addentriamo nei meccanismi che hanno portato, dopo sei anni, allo sblocco dei Livelli essenziali di assistenza-Lea. Il problema grosso, accanto ai finanziamenti, resta comunque quello del personale medico e infermieristico

di Nicola Varcasia

Ci siamo. Dopo anni di rinvii, proteste sociali e giochi politici al ribasso, la Conferenza stato regioni ha trovato l’intesa sul nuovo tariffario delle prestazioni sanitarie. Una decisione essenziale per sbloccare i Lea, livelli essenziali di assistenza che le regioni, fulcro della sanità nel nostro Paese, sono chiamati ad erogare ai cittadini sul territorio di loro competenza. Parliamo di oltre tremila tra prestazioni ambulatoriali e protesiche, alcune ad alto contenuto tecnologico come le protesi oculari o gli arti artificiali e altre ancora più diffuse come l’adroterapia (uno speciale tipo di radioterapia) che ora le regioni saranno tenute ad erogare, scongiurando almeno in parte il cosiddetto turismo sanitario. Con un certo orgoglio, dunque, il ministro della salute, Orazio Schillaci, ha presentato un provvedimento atteso da anni. Basti pensare che gli stessi Lea erano fermi dal 2017 e che il tariffario di alcune prestazioni risaliva, pur con alcuni adeguamenti, ancora ai tempi della lira. Ma si tratta di una montagna di carta oppure si stanno innescando davvero dei processi che miglioreranno la sanità pubblica?

Lo abbiamo chiesto ad Alberto Ricci, coordinatore dell’osservatorio Oasi del centro di ricerca Cergas, Sda Bocconi, a partire da qualche chiarimento sul significato dei termini. La decisione presa nella Conferenza stato regioni è stata infatti un passaggio necessario per approvare il tariffario del cosiddetto nuovo “nomenclatore”: «In pratica, il nomenclatore è la lista di prestazioni – i famosi livelli essenziali di assistenza – che il Servizio sanitario nazionale si impegna a fornire ai cittadini su tutto il territorio nazionale. Il nomenclatore era stato approvato già nel 2017, con l’inserimento di quelle prestazioni più in linea con i nuovi bisogni di salute dei cittadini, colmando una lacuna che risaliva al 1996 per le prestazioni ambulatoriali e al 1999 per quelle protesiche».

Sembrava fatta già allora ma, per l’entrata in vigore del nuovo nomenclatore, mancava il secondo documento, quello con le tariffe corrispondenti alle nuove prestazioni. Il problema, come è facile immaginare, è di risorse: «Lo Stato, oltre ad aggiornarne la lista, ha la responsabilità di finanziare l’erogazione delle prestazioni attraverso lo stanziamento del Fondo sanitario nazionale che viene ripartito tra le regioni italiane». Ed è il motivo per cui si prevede un tariffario in cui, per ogni prestazione, viene fissato un importo massimo che la regione corrisponderà all’ente erogatore – una struttura sanitaria, un centro ambulatoriale, un ospedale – che poi offrirà questa prestazione al cittadino: «Non è lo stato direttamente, ma sono le regioni a pagare gli erogatori che, in questo segmento della specialistica ambulatoriale, sono in buona parte privati accreditati. È quindi altrettanto chiaro, oltre che ragionevole, che le stesse regioni vogliano negoziare tanto la lista quanto le tariffe e i finanziamenti aggiuntivi rispetto a quelli che ritengono essere i bisogni reali dei cittadini. L’intento è evitare che il cittadino chieda un servizio che poi, all’atto pratico, il servizio sanitario non riesce a garantire, perché la regione stessa non dispone delle risorse per remunerare l’erogatore».

A questa dinamica di confronto si aggiungono anche i pareri di altri portatori di interesse quali le associazioni di categoria e dei professionisti, che si vedono attribuire “dall’alto” un determinato valore per una prestazione specialistica. Il passaggio alla Conferenza stato regioni era quello che doveva chiudere il cerchio per l’approvazione definitiva del tariffario. Ci sono voluti sei anni. Comunque sia andata, la reputazione del Servizio sanitario nazionale ne ha risentito.

Ma cosa è accaduto nel frattempo? «Il sistema è andato avanti lo stesso, evidenziando le differenze tra i diversi sistemi regionali. Quelli con più risorse, attraverso i cosiddetti extra Lea, inserivano autonomamente nei loro tariffari regionali alcune delle prestazioni previste nella nuova lista aggiornata, finanziandole con le proprie entrate. Prestazioni che altre regioni non potevano permettersi. Questa è una delle ragioni per cui si è diffuso il fenomeno della mobilità sanitaria, per cui i pazienti si spostano da una regione all’altra per ricevere delle cure che sulla carta sarebbero previste ed esigibili anche nel proprio territorio».

Ora che il decreto tariffe è stato approvato, almeno sulla carta il problema è risolto ma, come hanno notato subito le associazioni che si erano mobilitate in modo permanente perché si arrivasse almeno a questo risultato, la strada è ancora lunga. Bisogna affrontare il problema a monte: «Il finanziamento del più ampio numero di prestazioni previste dal nomenclatore e dal tariffario, che passa da circa 1.700 a 2.100, con un aumento dei costi stimato in oltre 400 milioni di euro».

Nell’accordo sul decreto tariffe raggiunto nella Conferenza stato regioni la copertura dei 400 milioni è stata garantita. Il timore piuttosto fondato è che questi soldi non basteranno e dunque non si contrasti il primo effetto di questa carenza, cioè l’allungamento delle liste d’attesa: «Per assorbire la mancanza di risorse disponibili in un determinato anno solare si allungano i tempi in cui le prestazioni vengono erogate, rimandando quelle non coperte economicamente all’anno successivo». Detta in altri termini, ecco perché quando un cittadino chiama il CUP si sente ripetere dall’operatore che sono chiuse le liste o cose simili, costringendo chi può a rivolgersi al regime privato e chi non può a dolorose attese oppure a viaggi della speranza lontani da casa. Il problema dunque non scompare, ma comunque viene riconosciuta l’importanza del passo avanti: «Per certe categorie di pazienti, in particolare quelli con necessità anche gravi, il beneficio ci sarà. Ad esempio, sul versante della protesica, i pazienti potranno ricevere gratuitamente ausili tecnologicamente al passo con i tempi. Ci saranno avanzamenti anche nell’ambito della diagnostica, della riabilitazione, dei trattamenti oncologici, e in molti altri ambiti. Inoltre, è prevedibile la diminuzione della mobilità sanitaria tra una regione che già include nei suoi Lea queste nuove prestazioni e quelle che ancora non le includono».

I nodi del nostro sistema sanitario non si riducono comunque ai Lea: «Rispetto agli altri Paesi occidentali abbiamo un finanziamento della sanità ridotto in termini di rapporti con il Pil e tanti problemi dipendono indubbiamente da questo aspetto. Ma c’è anche il grande tema del personale sanitario, che riguarda sia i numeri e l’età media di medici e infermieri, anche in questo caso più alti che nel resto d’Europa, sia la composizione dei profili che saranno maggiormente richiesti nei prossimi anni, a causa dell’invecchiamento della popolazione e degli investimenti sull’assistenza distrettuale, cioè non ospedaliera, previsti dal Pnrr», conclude Ricci.

Foto in apertura: valelopardo da Pixabay

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