Welfare
San Vittore. Sei letti al posto di due
Un giorno nel grande carcere, ai limiti della capienza
di Redazione

Cinquecento detenuti in più della capienza normale, mura fatiscenti, ventenni in cella con i boss, il 60% di stranieri
(separati per etnia), 250 guardie in meno del necessario.
Benvenuti in piazza Filangieri 2, dove la rieducazione può diventare utopia e l’acqua fresca un miraggio Stabile d’epoca in pieno centro a Milano. Piazza Filangieri 2, 50mila metri quadri circa. Da ristrutturare.
Più che un’informazione è una preghiera. Di posto, al momento, proprio non ce n’è. Però, a San Vittore, ogni giorno entrano nuovi ospiti e in qualche modo vanno stipati.
Il portone principale è signorile e semiaperto, ma per accedere alle abitazioni si passa per un’infinità di chiavistelli e porte blindate. La parola magica è: «Guardiaaa». Dopo averla gridata bisogna attendere qualche istante, poi le sbarre si aprono e ti invitano a proseguire fino alle successive.
Siamo all’inizio del primo raggio, come ci viene spiegato. Mentre gli occhi si aguzzano cercando di cogliere quanto più possibile, le orecchie non sono da meno, tese in ascolto dell’agente carcerario che, con trasporto, racconta le vicende di questa casa circondariale.
I condomini sono oltre 1.400. Il condominio, allo stato attuale, ne potrebbe ospitare circa 900. Sono tutti giovani quelli che incontriamo nel primo raggio e questo non è un caso, ma la ferma traduzione di un progetto. Non mischiare detenuti recidivi a indiziati di primo pelo. L’idea originaria era di organizzare una specie di under 21, ma due raggi chiusi per ristrutturazione in data da destinarsi hanno abbassato le possibilità d’azione e alzato il limite a 25 anni.
Di necessità virtù, così si è soliti dire. Del braccio in cui siamo comincia a vedersi la fine, ma le scale offrono un diversivo a cui non aver rinunciato si rivelerà presto una scelta vincente. Saliamo, dunque. Al centro diurno.
Tre giorni alla settimana, da un anno a questa parte, le associazioni A&I e Arci lavorano con persone affette da problemi psichiatrici. Abbiamo la fortuna di capitare in uno di quei giorni. Laboratori di musica, cinema, arteterapia e altro ancora, ma anche semplicemente la possibilità di prepararsi da soli un caffè, fumare una sigaretta e parlare di come funziona una vita prima silenziosa e ben più problematica. C’è chi afferma con orgoglio di aver smesso di esser cliente dello psichiatra e degli psicofarmaci. Ha scoperto che gli basta parlare, sfogarsi, confidare. Chi sogghigna e poi dice di essere incazzato nero, affermazione che preoccupa tutti finché non si capisce che abbiamo problemi più irrisolti noi di chi sa ridere del colore della propria pelle.
Al centro diurno la situazione è così commovente e positiva che rifare i piani al contrario pare una vera discesa agli inferi. E gli inferi sono una metafora non tanto lontana dallo stato in cui versa San Vittore.
La guardia, il nostro angelo carcerario in realtà, ci spiega che è dura lavorare bene, far filare tutto liscio quando mancano più di 250 agenti all’appello. Gli sforzi di ognuno vanno moltiplicati per mille. A fatica, una volta ridiscesi, arriviamo in fondo. Il timore è per quel che ci aspetta e a conti fatti è un timore del tutto legittimo.
Siamo al centro della raggiera, nel cuore di San Vittore. Ora vediamo distintamente i nomi dei sei raggi affissi in cima agli archi da cui partono. Vediamo i due bracci chiusi per ristrutturazione. E dobbiamo scegliere cosa andare a guardare.
Braccio V. I nuovi giunti. Qui, dopo i controlli preliminari, dovrebbero alloggiare gli ultimi arrivi. Dovrebbero, perché la realtà dei fatti pone vincoli che nemmeno le migliori intenzioni sono in grado sciogliere. Carenza di spazi e di personale hanno reso necessario ammassare in celle da uno, massimo due persone, letti a castello per sei, per far sì che assieme ai nuovi giunti trovino spazio anche coloro che hanno necessità di cure mediche. La conformazione di questi stanzini e l’ingombro dei giacigli tuttavia, in alcuni casi almeno, finiscono per ostacolare l’apertura dell’unica finestra presente, rendendo la convivenza forzata ancor più dura di quanto già non sia. Unica accortezza possibile, per chi lavora nel carcere, è quella di dividere le varie etnie, perché «gli arabi e gli albanesi, altrimenti, si ammazzano».
Il quinto braccio è stato restaurato qualche anno fa e, pur non essendo una reggia, con una mano di bianco e quattro persone in meno per cella non farebbe correre tanto velocemente il pensiero a considerazioni sui diritti umani. Non esistono soldi, però, tanto per ristrutturare i bracci dismessi quanto per imbiancare. Di tanto in tanto, ci confessano, arriva qualche latta, immancabilmente frutto di donazioni e parsimoniosamente usata per andare a coprire gli angoli più fatiscenti. Concludiamo la visita al braccio numero cinque salutando e venendo contraccambiati dai detenuti. L’umore, inspiegabilmente, sembra buono. Che sia per merito dell’impegno delle guardie carcerarie pare l’unica spiegazione possibile.
«Guardiaaa». La chiave si infila nella serratura. Un rettangolo fatto di sbarre si schiude per un attimo dall’immensa cornice, il tempo di farci uscire.
Stessa procedura e questa volta siamo dentro. Braccio VI. I protetti. Sempre sei letti per stanza, solito insopportabile caldo, medesima minuziosa attenzione nella divisione delle etnie.
Eppure qualcosa è diverso. Non è solo la presenza di persone piene di garze e cerotti, frutto di un autolesionismo imposto da un miscuglio insondabile di disperazione e follia, e nemmeno le suppliche di un giovane senza permesso di soggiorno che implora non solo di tenerlo rinchiuso, ma anche di aiutarlo. Legge il suo futuro molto meglio di un mago. E basta togliere la prima consonante per risolvere il rebus. Se il braccio numero cinque lascia sgomenti, il sesto indigna. Ci avevano avvertiti che non era stato ristrutturato, ma muovendosi per il lungo corridoio sembra di osservare animali, e non esseri umani, per le condizioni in cui versano.
Non è più una questione di imbiancatura, qui il problema è strutturale. Le celle, probabilmente, hanno la stessa metratura, ma cadendo a pezzi danno l’impressione di essere ancor più piccole. Ogni speranza di rieducazione muore ancor prima di nascere, lo pensiamo noi e ce lo conferma un albanese che, incuriosito dalla nostra presenza, ci chiama a colloquio. «Se mi dessero due mattoni costruirei io un bagno, invece del muretto alto due spanne e della turca che dividiamo in sei. Se uno entra con la testa vuota qui dovrebbero riempirla di cose buone, ma in queste condizioni non puoi che uscire peggiore. Se ci trattano così, se questa è l’idea che hanno di noi fuori, allora le vere merde sono loro, non noi».
Con toni un po’ meno accesi conferma anche la nostra guida, il nostro angelo custode, che qui lavora tutti i giorni e dove le otto ore sono considerate lo straordinario, non le tredici o le quattordici.
Saliamo una rampa di scale con un fardello a fatica sostenibile. Al primo piano ci sono i protetti. Non dovrebbero stare qui ma la mancanza generalizzata di agenti carcerari ha di fatto costretto San Vittore a specializzarsi nell’arte dell’arrangiarsi. Ci sono autori di crimini sessuali, ma anche persone che hanno deciso di collaborare con la giustizia, e a questi si aggiunge una piccola colonia di transessuali. Nel braccio numero sei le docce non sono in ogni singola cella, bensì in comune. Immaginarsi un transessuale che si lava accanto ad uno stupratore è pura follia, e quindi orari e controlli sono qui ancor più rigorosi. Per ironia della sorte, dunque, servirebbero un maggior numero di persone in servizio, ma l’ovvia equazione più lavoro più personale non è riuscita a evadere le sicure mura di cinta della casa circondariale.
Peggio di così difficilmente potrebbe andare. Ma non è vero. Perché sta arrivando l’estate. Essere in sei, in uno stanzino, col miraggio di una finestrella che forse si apre e forse no è già di per sé una pena nella pena. Ma ai piani alti va considerata una penitenza aggiuntiva. L’acqua. Perché, quando fa caldo, l’acqua fresca è più buona. Regala un sollievo. Ma facendo scorrere i rubinetti al piano terra per ottenere una temperatura decente prima di riempire le bottigliette di plastica, di fatto si toglie acqua a chi sta sopra. Considerando il sovrannumero, immaginare qualche rubinetto in più aperto di sotto è del tutto logico, almeno quanto il contare lo scontento crescente di chi li sente scorrere impotente.
Il percorso a ritroso ci riporta per strada, all’aria aperta. Se fosse solo una farsa costruita all’uopo per scoraggiare l’insorgere di una qualsivoglia tentazione criminale, l’opera messa in scena sarebbe stata perfetta. Ma il sipario che ci si chiude alle spalle nasconde senza eliminarlo un problema di cui, fosse solo per dignità, bisognerebbe farsi carico. Immediatamente.
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