Welfare

San Vittore, è permesso?

Genitori, mariti, mogli e poi bambini, tanti bambini, due volte la settimana si alzano all’alba per andare a trovare i loro cari in prigione. Vita per una volta ha voluto accompagnarli.

di Redazione

    Viale Papiniano, a Milano. Una porta a specchi con una scritta nera: martedì – sabato, 8.30 – 13.30. Basta mettersi davanti e aspettare qualche istante perché si apra. Poi si supera un corridoio di cancelli, una guardia e un cane. È questo l?ingresso nella sala d?attesa per i colloqui con i detenuti del carcere di San Vittore a Milano.     L?orario di visita inizia dopo le otto, ma i parenti si mettono in coda già all?alba. Vengono dalla città, più spesso dalla periferia e dall?hinterland. Non c?è distanza che li possa tenere lontani da questo appuntamento. Possono vedere i loro familiari poche volte in un mese e per un?ora soltanto. Arrivano carichi di pacchi, di vestiti e cibo. Si riconoscono dalla busta di cartone, uguale per tutti, con cui escono dopo gli incontri, dai volti segnati e dal passo veloce di chi non ha nessuna voglia di alzare lo sguardo dal marciapiede. Sembra facciano parte di un altro mondo, di quello che sta dentro, oltre la porta a specchi.     Nella sala d?attesa la gente si siede dove può, su panche di legno lasciate in mezzo alla stanza o appoggiate alle pareti. Chiusa in gabbia, una macchinetta che distribuisce bevande e qualche cosa da mangiare. Con una scritta luminosa che dice «San Pellegrino, il piacere frizzante», che in nulla si addice all?atmosfera.     Si sente parlare in italiano, urlato, biascicato, mangiato, sporcato da mille accenti. Stranieri, extracomunitari, indiani, zingari, italiani. Dal corridoio di cancelli, la gente arriva in continuazione. Entrano donne con il capo coperto da un velo, signore anziane, alcune vestite con gioielli e orecchini, e ragazze giovanissime in scarpe da ginnastica e tuta. Padri e uomini. E poi bambini, bambini, bambini ovunque, che si mettono a giocare tra le sbarre. Che urlano, corrono, dormono nelle carrozzine e nelle pance delle madri. Non si preoccupano di niente, fingono di capirsi mentre uno parla in francese e l?altro risponde in arabo. Si sorridono, si guardano intorno cercando gli occhi delle mamme e poi tornano a infilare gambe e mani nella gabbia delle bibite.     «La vita è una tragedia. È molto peggio di quello che sembra», così si commenta. Mentre aspettano di essere chiamate per il colloquio, le donne in coda parlano di processi, appelli, condanne con una spontaneità disarmante, come se stessero leggendo una ricetta per un nuovo piatto da cucinare. Sono rassegnate, più che altro. «Chi entra qui dentro una volta, poi ci torna ancora», dicono.     «Il carcere non serve a niente», racconta M., «peggiora le persone e basta, e appena sono liberi ricominciano le botte». Suo marito è in prigione da un mese e mezzo per droga. Si è già fatto un paio d?anni a Verbania. Sono sposati da tre e praticamente lei non l?ha mai visto. «Perdo un sacco di tempo ogni volta che vengo», dice M., «non ne posso più. Abbiamo sei ore al mese di colloquio. Il giorno lo scelgono loro in base alla lettera dell?alfabeto. Non ne vorrei di più, vorrei solo essere più libera di venire quando mi è più comodo».     M. è giovane, mentre parla le mani le tremano dall?agitazione. Gli occhi, piccoli e veloci, si guardano intorno sospettosi, sempre all?erta. Perché è così che ci si sente appena superato l?ingresso a specchi. La tensione è scandita dai colpi che le guardie battono sulla porta di ferro che divide la sala d?attesa dai parlatori. Un rumore secco, il loro codice segreto. Loro che camminano per la stanza in guanti bianchi, in una mano un metal detector e nell?altra un cane. Con l?atteggiamento di chi sta tenendo in pugno il mondo, o almeno, quella parte di mondo.     «Le stanze dove ti fanno incontrare i parenti sono luride, puzzano», spiega ancora M., «il pavimento è scivoloso e quei tavolini sono così sporchi che non ti puoi nemmeno appoggiare». Ti puoi dare un bacio, niente di più. «E poi è pieno di bambini. Come si fa a fare certe cose?»     L. sta aspettando di poter parlare con suo figlio, arrestato tre mesi fa per detenzione di cocaina e condannato a tre anni e mezzo. È una madre come tante altre qui dentro. Tiene stretta la carta d?identità per non perdere nemmeno un secondo quando la chiameranno per entrare. Si è fatta accompagnare dal marito. «In carcere non ti viene concesso nulla», spiega. «Nessuna intimità, nessun contatto e le guardie che assistono ai colloqui sono tremende. Una volta dentro, tuo figlio è loro». Scuote la testa, mentre racconta la sua storia come se si dovesse convincere che è vero, tutto vero.     Le procedure burocratiche per vedere i detenuti sono infernali. Per ogni cosa si deve fare la coda agli sportelli. Sei in tutto, due per ciascuna richiesta: permesso colloqui, consegna pacchi, versamenti. Ci sono dei fogli appesi alle pareti che spiegano come compilare la ?domandina?, come la chiamano in gergo. Senza la ?domandina? non puoi fare nulla: ti serve per la consegna del cibo, dei vestiti, per il versamento dei soldi, per sapere come sta tuo figlio, fratello, padre e se è ancora in quel carcere o è stato trasferito da qualche altra parte.     «Devi fare una lista delle cose che vuoi portare e poi metterle nelle buste di carta», racconta A. Ha i capelli tinti di biondo e orecchie bucate da sei orecchini, le dita mangiate e i denti consumati. Le si legge in faccia il suo passato, lo si intuisce dai movimenti delle mani e dalla facilità con cui si muove nella stanza. È una che conosce l?ambiente, e si vede. Il fratello sta scontando una pena per rapina e suo marito è stato a Bollate per cinque anni. «Qui non c?è niente, è tutto vecchio e sporco. In cella ci sono i topi. Fanno schifo. Prima di entrare ti fanno una ?perquisa?, ma è all?acqua di rose. Passa di tutto: basta allungare una mancia e fai quello che vuoi. È più facile trovare la droga qui dentro che fuori». Però c?è chi torna indietro con un sacchetto pieno di zucchine o una sacca di trapunte e coperte. Perché quella roba lì non è permessa. Ordine delle guardie.     In coda, c?è una donna che piange. Tira fuori dalla busta di carta un paio di mutande, prende una penna e ci scrive sopra: «Ti voglio bene, mamma». Fra poco sarà il suo turno. Colloqui 6 ore, in 30 giorni     La legge 354/1975 dell?Ordinamento penitenziario prevede che all?interno del carcere vi siano spazi appositi destinati al mantenimento dei rapporti tra familiari e carcerati.     Nel Regolamento d?esecuzione n. 230/2000 vengono stabilite le modalità di colloquio. Dopo la sentenza di primo grado, detenuti, internati e imputati hanno diritto a sei colloqui al mese, di un?ora ciascuno, con congiunti o conviventi. Gli incontri avvengono in locali interni senza mezzi divisori o in spazi all?aperto.     Per ogni detenuto si possono presentare tre persone al massimo. Una deroga viene fatta nel caso di congiunti o conviventi. La carica dei 200mila Ecco quanti sono i congiunti dei carcerati    Difficile dire quante siano le persone che ogni giorno entrano nelle 205 carceri italiane per fare visita ai detenuti. «Nessuna statistica del genere», fanno sapere dal Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Non rimane allora che affidarsi alle stime. Innanzitutto quella dei parenti dei 59mila carcerati: «Circa 200mila», dice Francesco Morelli di Ristretti.it. Di questi, in base ai dati ufficiali, almeno 20.362 sono i figli accertati dei detenuti. Ma quanti realmente varcano le soglie degli istituti? «Da noi ci sono 1.540 detenuti», interviene Gloria Manzelli (nella foto), direttrice del penitenziario milanese di San Vittore, «e ogni giorno registriamo 100 visite a cui corrisponde l?ingresso di 300 persone». «Nel carcere di Bollate, invece», riferisce la direttrice Lucia Castellano, «per 820 detenuti abbiamo fra le 60 e 70 visite al giorno». di Giulia Guerri


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