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Sami, Unhcr: Servono politiche concrete per i rifugiati

"Non bisogna stare solo sull'emergenza, le migrazioni sono un fatto strutturale", indica la nuova portavoce dell'Agenzia Onu, che rileva come "molte interviste dal Nord Europa vertono su fatti concreti e storie di vita, mentre le poche dall'Italia riguardano spesso opinioni su temi politici".

di Daniele Biella

“Il mio lavoro? Adoperarmi per portare al miglioramento della prima accoglienza dei richiedenti asilo, che oggi non funziona in molte situazioni, così come a una maggiore integrazione dei rifugiati una volta ottenuto lo status, per evitare che finiscano nei palazzoni dismessi”. Parole chiare quelle di Carlotta Sami, 43 anni, dal 1 gennaio 2014 portavoce di Unchr Sud Europa, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati. Il suo mandato riguarda la gran parte dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo: Italia, Grecia, Malta, Albania, Cipro ma anche Spagna. Direttore nazionale di Amnesty International per due anni, fino a fine 2013, Sami, laureata in giurisprudenza, è stata per gli otto anni precedenti portavoce di Save the Children Italia. A due settimane dalla presa dell’incarico, Vita.it fa con lei il punto della situazione sui temi centrali del suo operato.

Quali sono gli ambiti in cui l’Unhcr può e deve incidere?
E’ fondamentale la nostra presenza nei luoghi più difficili, per esempio dove avvengono gli sbarchi e dove viene verificata la condizione di rifugiato di un migrante. Ma altrettanto importante è fare pressione ai governi, d’Italie come d’Europa, per porre rimedio alle politiche attuali sull’immigrazione: si deve uscire dalla logica dell’emergenza, arrivano centinaia di persone ogni giorno e i conflitti, in Siria come in Africa (si pensi a Congo, Somalia, alle persecuzioni in Eritrea, al Sud Sudan) non accennano a placarsi. Servono strumenti concreti ed efficaci da subito, come ha ricordato di recente l’Alto commissario dell’Onu ai governi dell’Unione europea, ribadendo che è necessario un maggiore impegno collettivo per farsi carico del problema.

L’Italia cosa deve fare?
Innanzitutto trasporre le direttive europee in vigore in decreti legge, soprattutto sull’integrazione dei rifugiati, che spesso dopo l’ottenimento dello status vengono lasciati a sé stessi senza reti di inserimento legate soprattutto a casa e lavoro. Oggi i progetti in tal senso sono assolutamente insufficienti, e la burocrazia delle procedure è ancora troppo forte, va snellita. E’ chiaro poi che la responsabilità della situazione attuale non è solo italiana, ma dell’Europa, in particolare partendo dall’anacronismo (sancito dagli accordi di Dublino II, ndr) che un migrante deve fare la domanda d’asilo nel primo paese che incontra quando invece vorrebbe andare altrove, spesso dai parenti e questo genera solo difficoltà di gestione. C’è però da sottolineare che i rifugiati oggi in Italia sono 60mila, pochi rispetto a tanti altri paesi d’Europa, come l’Olanda che ha lo stesso numero ma in un territorio molto minore, o la Germania, che ne ospita ben 600mila, ovvero dieci volte tanto.

Quello che arriva agli occhi degli italiani, però, sono le tragedie del mare, i Centri di prima accoglienza in condizioni disastrose, e le palazzine occupate dai profughi…
Sì, molte cose devono necessariamente cambiare, a cominciare dal potenziamento e dall’aumento dei Cara, Centri di (seconda) accoglienza per richiedenti asilo, per evitare assembramenti inumani di migliaia di persone in centri non adeguati per numero, come il Cara di Mineo, o per legge, come il Cpsa di Lampedusa, in cui le persone ci dovrebbero stare al massimo due giorni invece spesso vengono trattenute molto più tempo. Allo stesso modo, bisogna concentrarsi anche su come vengono descritte le condizioni delle persone migranti.

In che senso?
Si tratta di portare avanti un grosso lavoro culturale, per combattere razzismo e xenofobia partendo dai fatti, dalle storie dei singoli che incontriamo ogni giorno nel nostro operato. Ci vuole un approccio diverso da parte di tutti, o perlomeno da chi fa informazione di un certo tipo: in questo senso va letta l’adesione dell’Unhcr alla Carta di Roma, associazione che punta a un informazione corretta e responsabile sul tema delicato dell’immigrazione. Chiarisco meglio con un esempio concreto: in questi primi giorni da quando ho assunto il mio nuovo ruolo mi sono state richieste molte interviste. Molte dall’estero, dalla Germania come da altri paesi soprattutto del Nord Europa, poche da quelle italiane. Tra queste, nonostante ci sia forte interesse verso il ruolo dell’Unchr, nella maggior parte mi veniva chiesta un’opinione su singoli temi, laddove la stampa estera mi chiedeva informazioni specifiche su un caso particolare, sulle vicende di singole persone o famiglie. Ecco, c’è molta differenza nei due modi di porsi: il mio non è un giudizio, ma una constatazione della realtà.

Come migliorare questa realtà?

L’Unchr ha una mission unica nel suo genere, quella di assistere persone in fuga da guerre, violenze e persecuzioni,  persone che non hanno il lusso di scegliere ma sono invece costrette ad abbandonare le proprie case per mettersi in salvo.  Ognuno di noi dovrebbe ricordarsi, nel proprio operato, nelle proprie prese di posizione, che è tramite la vita delle persone, le loro storie di viaggio, di naufragi e di dolore, che si conosce chi approda sulle nostre coste. L'interesse e la conoscenza delle storie di queste persone aiuterebbero l'opinione pubblica a comprendere cosa spinge le persone ad affrontare simili rischi per arrivare in Italia ed i Europa,  più che a ricondurre tutto a un mero confronto politico.

 

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