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Sami, portavoce Unhcr: No ai respingimenti, garantire diritto a chiedere asilo

Intervista alla referente per il Sud Europa dell'Agenzia Onu per i rifugiati: "Triton non sarà come Mare nostrum, i rischi di naufragi aumenteranno". Sull'uso della forza nel prendere le impronte: "Esiste l'obbligo per i profughi di lasciarle, ma bisogna trovare il modo migliore per farlo. E servono al più presto cambiamenti nell'analisi delle richieste d'asilo"

di Daniele Biella

Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa di Unhcr, Alto commissariato Onu per i rifugiati, è appena ritornata da due missioni intense, prima tra Iraq e Giordania, poi sulle coste siciliane a monitorare gli sbarchi e le condizioni dei migranti nei centri d’accoglienza. “Siamo molto preoccupati. Mare nostrum chiude e Triton non sembra avere lo stesso livello di efficacia dell’operazione navale italiana, che ha permesso il salvataggio di centinaia di migliaia di persone. Nonostante almeno 3mila, tra cui parecchi bambini, siano comunque morte in mare”, puntualizza la portavoce dell’Agenzia delle Nazioni Unite, nell’affrontare i temi caldi legati alla forte ondata migratoria verso l’Europa degli ultimi 16 mesi soprattutto a causa delle guerre in Medio Oriente e Africa.
 
Cosa non la convince dell’operazione europea Triton?
Rimarrà a pattugliare a 30 miglia dalla costa, ma potrebbe fare di più spingendosi in acque internazionali come faceva Mare nostrum. Bisogna mantenere una forte azione comune a livello europeo, anche perché lo scenario è quello di un ulteriore aumento delle partenze: si veda, oltre a Siria ed Eritrea, il nuovo dramma iracheno. Le persone continueranno a partire e se la Ue abbassa la guardia i rischi per chi viaggia saranno sempre maggiori. Di certo Marina e Guardia costiera continueranno a fare il loro egregio lavoro, ma c’è bisogno anche di altro, così come c’è da valorizzare l’importante ruolo che hanno le navi commerciali, in molti casi protagoniste di salvataggi.
 
Con Mare nostrum i respingimenti si erano quasi azzerati, ora invece sembra che siano ripresi: per esempio c’è la notizia di almeno 50 egiziani sbarcati a Pozzallo subito rimandati indietro senza aver permesso loro di fare richiesta di protezione internazionale, oppure persone rimpatriate al loro arrivo in aeroporto, a Fiumicino come a Orio al Serio…
Tutti devono avere la possibilità di richiedere asilo politico al momento dell’arrivo a terra, quindi non devono esserci situazioni del genere, e allo stesso modo non devono essere prese decisioni riguardanti i migranti a bordo delle navi di salvataggio. Ogni situazione va analizzata dai governi, eventualmente anche con il supporto dell’organismo comunitario predisposto, ovvero l’Easo, Ente europeo di supporto all’asilo, che ha sede a Malta. Noi comunque monitoriamo anche la situazione degli aeroporti. E richiediamo ai governi soluzioni che evitino i viaggi della disperazione in mare: in particolare, per quanto riguarda i siriani, è necessario fare di più per garantire un arrivo in Europa sicuro e legale.
 
C’è un altro aspetto che negli ultimi tempi, in particolare dopo una circolare ministeriale del 10 settembre 2014, sta allarmando i profughi, e con loro operatori e volontari: quello dell’obbligatorietà di fornire le proprie impronte digitali alle forze dell’ordine una volta sbarcati. È stato segnalato che viene loro consegnato un documento multilingue dove si intima, anche con l’eventuale uso della forza, di non opporre resistenza al fingerprinting. Non si tratta di una pratica lesiva dei diritti umani?
L’identificazione è un obbligo legislativo, come spiega il regolamento europeo Dublino 3, ma bisogna trovare con urgenza un modo per arrivare alla migliore soluzione possibile. Il migrante è tenuto, sempre per legge, a collaborare, però la situazione attuale vede la gran parte di loro opporsi perché, una volta lasciate le impronte, devono per forza fare richiesta d’asilo in Italia e non altrove, dove magari hanno parenti o conoscenti che potrebbero accoglierli. È chiaro che il sistema d’accoglienza ha dei punti che devono essere modificati il prima possibile, per il bene di tutti. Nel frattempo noi teniamo monitorato quanto accade, luogo per luogo.

Chi viene forzato a lasciare le impronte parte comunque per il Nord Europa, salvo poi essere rimandato in Italia al primo controllo, come avviene sempre più spesso al confine con l’Austria. Secondo il suo punto di vista, come andrebbe cambiato il regolamento per richiedere protezione? Il sottosegretario agli Interni Domenico Manzione, nell’intervista a Vita, propone una commissione plurinazionale per valutare ciascuna domanda di asilo.
Le ipotesi al vaglio sono diverse, certo sarebbe interessante un esame congiunto delle richieste. Si tratterebbe di un’azione organica che aiuterebbe gli stessi paesi europei nella gestione dei flussi, proporzionata alle capacità di accoglienza e alle situazioni di ciascun paese. Nel frattempo a Ginevra a dicembre chiederemo alla comunità internazionale di aumentare le quote per i reinsediamenti e gli accessi umanitari per i rifugiati siriani.

Di recente la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha stabilito che una famiglia di afgani non dovesse essere espulsa dalla Svizzera verso l’Italia, primo luogo di approdo nel 2011, perché il sistema italiano di accoglienza ai rifugiati oggi non presenza adeguate garanzie per una vita dignitosa. Che ne pensa?
È una sentenza interessante, perché di fronte al rischio di grave povertà la Corte ha preferito rifiutare temporaneamente la richiesta svizzera. Le difficoltà nel livello della seconda accoglienza in Italia le conosciamo, e nonostante i tentativi fatti c’è ancora molto da migliorare, investendo in particolare nelle politiche di integrazione. Siamo sempre pronti a collaborare in tal senso, con il governo.


Sul tema delle persone apolidi, ovvero senza una cittadinanza, avete appena lanciato una campagna mondiale I belong. Con quale obiettivo?
Dare in 10 anni un’identità nazionale ai 10 milioni che ancora oggi sono apolidi. In questo senso molti Stati hanno promosso azioni meritevoli e i numeri sono in discesa, per questo lanciamo ora la campagna, con l’obiettivo di azzerare questa condizione assurda, che di fatto rende invisibili intere famiglie, in molti casi reduci dallo sfaldamento dell’ex Urss o dell’ex Jugoslavia, non facendole accedere ad alcun servizio sociale.
 

 

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