Welfare
“Salviamo i nostri anziani”: Sant’Egidio si mobilita e pensa al futuro
I Giovani per la Pace lanciano un video e una campagna social per aprire un dibattito pubblico sulla “strage” degli anziani nelle RSA e nelle case di riposo durante l’emergenza Covid19. «E’ una campagna fatta anche di proposte concrete – spiega Roberto Bortone della Comunità di Sant’Egidio – questa tragedia ha fatto emergere la necessità di un modello alternativo di assistenza della nostra popolazione più fragile».
di Anna Toro
Per gli anziani del nostro paese esiste un’alternativa alle morti, alla solitudine e all’abbandono, ma è necessario che questo periodo buio diventi un’occasione per ripensare e superare il modello delle RSA e dell’istituzionalizzazione. Ne sono convinti i Giovani per la Pace, il movimento degli studenti medi e universitari della Comunità di Sant’Egidio che, consci della tragedia che sta colpendo la generazione dei loro nonni e delle loro nonne, hanno deciso di attivarsi attraverso la campagna “Salviamo i nostri anziani”: un’iniziativa online che durerà alcuni mesi e che parte con un video fatto interamente dai ragazzi accompagnato dall’hashtag #Salviamoinostrianziani, da diffondere attraverso tutti i social network proprio con lo scopo di dar voce a chi, nei giorni drammatici della pandemia, è morto nel silenzio. Dalle statistiche rivelate dall’Oms emerge infatti che, fino ad oggi, in Europa la metà delle vittime di Covid-19 erano ospiti delle Residenze Sanitarie Assistite, istituti o case di riposo. E anche in Italia la situazione è drammatica. «Per i Giovani per la Pace, non si tratta, però, solo di numeri – spiega Roberto Bortone, tra i responsabili della Comunità di Sant’Egidio per gli anziani nel territorio di Roma –. Alcuni degli anziani morti erano amici dei ragazzi e molti degli istituti coinvolti erano (e saranno nuovamente quando la situazione lo consentirà) luogo delle loro visite settimanali. I Giovani per la Pace hanno sentito forte questa ferita perché non hanno avuto nemmeno la possibilità di salutarli, così come di metabolizzare questa perdita».
Con la pandemia, il volontariato dei ragazzi si è interrotto?
Al contrario, i ragazzi e gli anziani chiusi negli istituti ancora oggi continuano a scambiarsi lettere, video e messaggi, che è anche un po’ la call to action della campagna: apriamo una riflessione pubblica in vista del futuro, ma cerchiamo di stare vicino agli anziani anche ora, subito, con i modi che ci sono permessi.
Quali sono le criticità che avete riscontrato all’interno delle RSA e degli istituti in questa emergenza?
E’ una situazione che abbiamo visto arrivare un po’ da lontano, un primo comunicato era uscito già ai primi di marzo. A partire dalla presenza della Comunità in questi luoghi, ci siamo infatti resi conto che in alcuni istituti c’era un problema di bassa attenzione e scarsa applicazione delle norme basilari per evitare il contagio, a partire dalla carenza dei presidi di protezione, come le mascherine. Questo non solo negli istituti di grandi dimensioni e con un alto numero di ospiti. Qui in Italia, infatti, ogni realtà territoriale è differente: la Lombardia, ad esempio, è una realtà di servizi sanitari assistenziali molto presente, organizzata anche con un numero di ospiti molto elevata, mentre nel Lazio non registriamo quei numeri se non in rari casi, viceversa troviamo una realtà molto più frammentata di piccole case di riposo, soprattutto al di fuori del circuito della città, più nascoste e quindi anche più complesse da monitorare. Le criticità le abbiamo riscontrate in entrambi i casi, spesso sollevate dai gestori delle strutture stesse.
Oltre alla carenza di presidi, c’è stata in alcune regioni la scelta di creare reparti di covid-positivi all’interno delle stesse RSA.
Abbiamo subito criticato questa scelta, al di fuori di ogni buonsenso. Papa Francesco ha parlato di “vulnerabilità di coloro che sono costretti a vivere in gruppo”: e questo è vero, figuriamoci se a questo gruppo già fragile se ne aggiunge un secondo che è positivo al virus. La condivisione degli spazi e la prossimità, il personale che talvolta era lo stesso per entrambi i reparti, la carenza di protezioni così come di ambienti stagni hanno contribuito a quello che è successo. Per noi il ragionamento neanche troppo sottile dietro a questa scelta è stato quello di creare pazienti di serie B e di serie A: se sei giovane e malato ti curi in ospedale, se sei anziano c’è un reparto specifico per te in una RSA che però, per quanto possa avvicinarsi a un ospedale, non lo è, soprattutto non è pensato per un’estrema medicalizzazione.
Molti anziani sono morti da soli, senza avere avuto la possibilità di contattare le loro famiglie.
Un’altra criticità che vogliamo mettere in luce è infatti l’isolamento tecnologico di alcune di queste strutture, che ancora oggi non sono riuscite a mettere a disposizione un sistema di videochiamate, di chat tra gli anziani e i parenti. Il problema del virus è non solo quello legato alla malattia ma, ce lo dice anche la medicina, il modo in cui il paziente la affronta: se per un mese o due non vede i propri cari sicuramente molte delle motivazioni che lo spingono ad andare avanti vengono a mancare. E’ un altro elemento emblematico di come il modello dell’istituzione totale non riesca a rispondere a quelli che sono i bisogni di benessere dell’anziano. Lo vediamo nelle emergenze ma anche nella normalità di tutti i giorni.
Esiste quindi un’alternativa agli istituti e alle RSA?
La campagna “Salviamo i nostri anziani” è fatta anche di proposte concrete, una battaglia che in realtà Sant’Egidio porta avanti da sempre, mettendo insieme le forze migliori del paese. Ci sono due macro elementi di cui non possiamo non tenere conto: il primo è che l’Italia è il paese più vecchio del mondo dopo il Giappone; secondo, è anche un paese di persone sole, in cui le famiglie monoparentali sono tantissime. A Roma, ad esempio, più del 40% delle famiglie sono composte da un solo membro. E’ una realtà che è cambiata rispetto a 20-30 anni fa e le risposte messe in campo allora per l’istituzionalizzazione oggi si rivelano totalmente insufficienti.
Quali sono le proposte concrete avanzate da Sant’Egidio?
Le nostre proposte possono riassumersi in tre punti. Il primo è rimettere al primo posto il mondo della sanità e dell’assistenza sociale sul territorio, rafforzando la cura domiciliare. Alla famiglia con un genitore malato o fragile, due o tre ore di assistenza domiciliare non bastano, e per chi non ha nemmeno la famiglia è anche peggio. Occorre mettere sul campo un po’ di creatività, soluzioni differenti, anche più leggere. Perché non rafforzare ad esempio la rete del medico di famiglia, figura che si è rivelata fondamentale in quest’emergenza? Si possono potenziare le buone pratiche, come il programma che Sant’Egidio porta avanti in alcune città d’Italia dal 2004, Viva gli anziani, e che proprio durante l’emergenza Covid si è intensificato. Si tratta di un monitoraggio attivo degli anziani ultraottantenni, telefonico e non solo, per intercettarne i bisogni e le criticità, che ha dato risultati straordinari: uno su tutti, la ricostruzione delle reti di quartiere, dal portiere del palazzo, al negoziante, farmacista, vicino di casa, pronti a dare una mano in caso di bisogno, così come ha portato all’attivazione di un enorme numero di volontari, compresi gli stessi anziani. Persone che hanno ancora molto da dire e, soprattutto, molto da dare.
Quali sono gli altri due punti?
Il secondo punto delle nostre proposte è ridare dignità al welfare famigliare. Parlo ad esempio dell’assistente domiciliare, che ci ostiniamo ancora a chiamare “badante”, il che indica come questa professione fondamentale sia ancora considerata poco nobile, mentre è davvero un’alternativa concreta all’istituzionalizzazione, e potrebbe essere il futuro anche in termini di occupazione, di rilancio del terzo settore, del non profit. Ma bisogna investire nella professionalizzazione di queste figure, in percorsi di studio specifici, nella regolarizzazione, e non lasciare tutto all’improvvisazione, con le conseguenze che conosciamo.
La terza proposta infine la possiamo sintetizzare nello slogan: gli anziani hanno bisogno di vivere in un luogo che possano chiamare casa. Che non è detto debba essere la loro casa. Stiamo riscontrando una disponibilità degli anziani nuova, diversa, a mettersi anche in gioco, e a sperimentare soluzioni diverse, come il co-housing, i condomini protetti, le convivenze tra anziani e studenti. Esperienze che in alcuni casi sono entrate a far parte della rosa dei servizi sociali, ma sempre con numeri molto bassi. Nel ripensare le soluzioni abitative, lo Stato dovrebbe ritrovare il proprio ruolo, incentivando queste alternative, invece che lasciare tutto al solo mercato degli istituti. Anche dal punto di vista economico, questo può rivelarsi un volano per una società che diventa sempre più anziana, tra posti di lavoro e ristrutturazioni, un futuro che è lì dietro ma che non vediamo, perché restiamo ancorati a un modello del passato.
A volte sono le stesse famiglie a fare resistenza.
Non tutte le famiglie possono permettersi una "badante", o la retta di una RSA, e in generale sono spesso lasciate sole a gestire i propri parenti fragili. Da qui la paura nell’abbandonare una soluzione e prospettiva che può sembrare più certa e rassicurante, sebbene non sia quella ideale per i propri famigliari. I primi consapevoli sono gli anziani stessi, che si fanno da parte perché sanno che la loro presenza diventa automaticamente una rinuncia per la famiglia. Questa rinuncia va colmata, e le soluzioni ci sono. C’è bisogno di cambiare. Se non impariamo anche da questa emergenza qualcosa per il domani, il rischio è di continuare a portare avanti un modello che sappiamo benissimo che non funziona, e le conseguenze le stiamo toccando con mano.
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