Famiglia
Sahadaya, via dall’inferno dei maschi
Una donna con due matrimoni e tre figli costretta ad una vita terribile. Sino allincontro con il Centro Darna...
Bussare alle porte del dolore non è impresa facile. Ogni volta che ci provi, ti sale un groppo in gola dalla paura di violare un territorio dai confini imperscrutabili. Quelli tracciati dal Centro Darna intimoriscono quanto basta per capire che oltre le ampie ante verdi del portone centrale costeggiato da alti muri recintati, c?è un mondo di sofferenza a cui gli abitanti di Mohammadia, periferia popolare est di Algeri, guarda con indifferenza. «E pensi che negli ultimi anni le cose sono migliorate. Prima, la gente non sopportava la presenza nel quartiere di donne abbandonate, fenomeno inaccettabile nella società algerina». Nabila Larbie ha 60 anni, gli ultimi tre trascorsi alla guida del Centro Darna (?la nostra casa? in arabo), un centro di accoglienza fondato nel 2001 per aiutare le donne vittime del terrorismo degli anni 90 e delle discriminazioni socio-familiari. «Sono ragazze madri, donne divorziate, celibe o vedove, e spesso appartengono alle categorie sociali più disagiate», spiega la signora Larbie.
Ogni anno il Centro Darna ne accoglie un centinaio su cui pesa da oltre 20 anni un codice familiare di cui Sahadiya, trent?anni spesi nell?inferno patriarcale algerino, ne è la vittima più illustre. «Il mio incubo è iniziato quando avevo 16 anni».
Sahadyia è nel fiore della gioventù quando sua madre, vedova e incapace di sopperire ai bisogni di cinque figli, la costringe a sposare un esperto contabile di Djelfa, 300 chilometri a sud di Algeri. Sahadiya non si oppone. A sorpresa, i primi cinque anni filano via in voluttuose maternità. «è bastato a mio marito perdere il lavoro per vedere il putiferio scatenarsi in casa».
Le botte sono all?ordine del giorno e non risparmiano nessuno, fino al tentato omicidio che spinge Sahadiya a chiedere il divorzio sotto lo sguardo inferocito di suoceri e cognati. L?occasione per fuggire si presenta nel peggioredei modi, con una figlia malata da curare a tutti i costi nella capitale algerina. «Ci ha accolto mia madre, ma per pochi mesi». Ci pensa quindi un poliziotto, di cui Sahadya si innamora e sposa.
Questa volta si fa tutto dall?imam, il quale benedice una coppia che, assieme a tre bambini, occuperà per ben cinque anni una lugubre cantina a Blida, una quarantina di chilometri a sud di Algeri. «Non c?erano finestre e l?aria che si respirava ci ha rovinato la salute». La fuga del marito nel 2005 assomiglia a una benedizione, proiettando Sahadiya e i suoi figli dritti dritti al Centro Darna. «Siamo sbarcati qui per caso, grazie a una segnalazione. All?inizio è stata durissima, anche perché i miei figli non potevano dire ai compagni di scuola che vivevano in un centro per donne sole. Ma se oggi sono salva, lo devo a tutta l?équipe di Rachda». Una squadra di 12 persone targata al femminile, tra cui una direttrice, una psicologa, un?assistente sociale e una formatrice professionale, «sono come una famiglia acquisita».
Dopo 20 minuti di intervista salta fuori il primo sorriso e la consapevolezza di aver compiuto miracoli. La prima figlia, Siham, 19 anni, è all?università; la seconda, Sara, 16, prosegue senza intoppi la scuola superiore; il terzo, Mehdi, 13 anni, ha un sogno nel cassetto: fare l?aviatore.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.