Cultura
Sacro e profondità di campo: l’immagine estrema
Nei primi piani della Giovanna d’Arco di Carl Th. Dreyer, il viso senza trucco di Renée Falconetti si trasforma nel campo di un’esperienza sconvolgente. «Una donna di puro dolore» la descrisse il regista che, nel 1927, ultimate le riprese non fece nulla per trattenerla, vedendola fuggire in preda a un’ossessione divorante
di Marco Dotti
Nei primi piani della Giovanna d’Arco di Carl Th. Dreyer, il viso senza trucco di Renée Falconetti si trasforma nel campo di un’esperienza sconvolgente. «Una donna di puro dolore» la descrisse il regista che, nel 1927, ultimate le riprese non fece nulla per trattenerla, vedendola fuggire in preda a un’ossessione divorante.
Tra un girato e l’altro, per sottrarsi allo spazio alienato del set, pare che Renée Jeanne – questo il nome completo dell’attrice corsa, nota al “suo” pubblico come “M.lle Falco” – si appartasse per pregare e rispondere alle voci che, da dentro, cominciavano a chiamarla. Costretta da una forza oscura a dissipare ambizioni, fama e carriera, per alcuni anni avrebbe comunque tentato di riprendere le fila del proprio destino dedicandosi a un teatro modesto e senza pretese, rassegnandosi infine a condurre un’esistenza appartata e piena di ombre, esule volontaria a Buenos Aires. In Argentina si spense in silenzio, il 12 dicembre del 1946, allontanatasi brutalmente dalla vita, grazie a una forte dose di veleno. Una delle sue ultime immagini la ritrae il giorno della liberazione di Parigi mentre festeggia, nell’ anonimo locale di un barrio argentino, cantando la Marsigliese.
Nessuno, ricordandola con i capelli rasati e gli occhi persi nell’assoluto della Passione di Giovanna, la riconoscerebbe in quello stato: ingrassata, capelli lunghi e un sorriso che – costa dirlo – sembra non appartenerle affatto. Come tutte le scene in cui opera una distruzione definitiva, anche quella del taglio dei capelli all’attrice sul set de La Passione de Jeanne d’Arc rientra forse nella categoria del sacrificio. «L’eterno cadere, a ogni proiezione, dei capelli della Falconetti, sotto il rasoio del boia» – osserva acutamente Alessandro Cappabianca – non è che ripetizione rituale. Messa per cinéphiles disposti a credere nell’immagine come transustanziazione, a lasciarsi affascinare dal suo spessore immaginario» (Alessandro Cappabianca, Il cinema e il sacro, Le Mani, Genova 1999).
Una ripetizione in perdita se ripetere gesti vuol dire perderli e assumerli come estranei. Falconetti, i suoi giudici, Artaud: ecco altrettante «trame d’ombra», passate in rassegna da Dreyer con una rigida alternanza di campo e controcampo che scandisce l’ordine (immateriale) del film.
In questo senso, è solo presumibile che i giudici guardino Giovanna negli occhi, durante il processo, poiché gli occhi di Giovanna, letteralmente, “non ci sono”. Così li descrive Cappabianca: «sbarrati, perduti, volti a uno spazio indeterminato, allo spazio atopico dell’appello. Occhi d’anima. Occhi/Viscere , rivoltati e esibiti a un altrove, offerti in olocausto. In essi si riflette una luce di specchio». Questa “luce” enigmatica rimanda – come, d’altra parte, anche il taglio dei capelli – a un’altra sottrazione: quella del corpo. Opererebbe qui una sorta di fisica dei corpi spettrali, una «rimaterializzazione in assenza di materia» che, a ben vedere, costituisce il perno ossessivo di gran parte della ricerca del regista danese.
Una sorta di vertigine dell’incarnazione (e forse anche dell’immanenza) che, osservava Sylvie Rollet, coincide con la «maledizione delle immagini che vagano, alla superficie del film, in cerca di un corpo da abitare». Una simmetria rovesciata rispetto a quella artaudiana che, dopo una rapida disillusione, nelle immagini del cinema vedeva una specie di espropriazione meccanica e negativa rispetto alla ricerca di base, ormai diretta altrove e comunque rivolta alla distillazione alchemica, alla “glorificazione” o – apparentemente – all’incarnazione filmica dei corpi.
Dreyer, nonostante tutte le delusioni, le incomprensioni, le vicissitudini attraversate (inutile ricordare qui il calvario e il rogo della pellicola), anche dopo la Jeanne d’Arc «ha continuato a perseguire fino alla fine il progetto dell’incarnazione, nel senso di un teletrasporto corporale dal set al film, capace di prendere partito da tutto, dalla corporeità di attori e attrici, dalla sapienza figurativa, dalle acquisizioni del montaggio, dalla scenografia, dalla luce (soprattutto) e perfino dalle prospettive del sonoro, per cui anche la parola si fa quasi concreto oggetto acustico (proprio quello che sognava Artaud, nella sceneggiatura della Rivolta del macellaio, la sola prevista per il cinema sonoro, in cui scriveva: “le voci stanno nello spazio come se fossero oggetti”)» (A. Cappabianca, Metafisica e crudeltà, in Sergio Grmek Germani e Giorgio Placereani, a cura di, Per Dreyer. Incarnazioni del cinema, Editrice Il Castoro, Milano 2004, p. 75).
Pensando al teatro come luogo di pura rappresentazione, Dreyer lo contrapponeva al cinema, luogo dell’essere. Di un essere perennemente e tragicamente in transito, da ricercare – qui stanno lo scandalo e il paradosso – nello spazio dove la dematerializzazione dei corpi è elevata all’ennesimo esponente proprio dalla potenza dei mezzi tecnici e dal fatto che «il corpo ci sarà pur stato (sul set), ma non c’è (sullo schermo)». Muovendo da questo problema e da queste presenze paradossali, avendo a che fare con corpi ben presenti sul set, ma destinati a rivelarsi otticamente illusori nel film, Dreyer elaborerà, «rispetto alla metafisica artaudiana dei Corpi, una fisica dei Corpi spettrali», le cui modalità investono globalmente il fare (e vedere) cinema. Non solo quello “di” Dreyer.
In questo senso, la Falconetti che nella teatrale Jeanne d’Arc, la pucelle de France di Saint-Georges de Bouhélier interpretava il ruolo, rappresentando il personaggio sulla scena, nel film – oltre il set – di Dreyer è il personaggio. È il corpo quintessenziale del personaggio: in questo senso, il paradosso può sciogliersi e si potrebbe giungere ad affermare che «se il cinema ha a che fare in generale con una fisica dei corpi spettrali, quello di Dreyer elabora e realizza il sogno del primo Artaud, del cinema come pratica alchemica». Quella di Jeanne Renée Falconetti diventa così un’«immagine estrema», di spavento e pericolo, intendendo questi ultimi termini in un’accezione (ancora) à la Artaud.
Ne La Mise en scène et la Métaphysique, ispirandosi al teatro balinese, l’autore marsigliese rimarcava infatti funzioni e compiti che la paura avrebbe dovuto assumere nel nuovo teatro, servendosi di «un Essere inventato, fatto di legno o di stoffa, creato in ogni parte, che non somiglia a niente, e tuttavia inquietante per natura, capace di reintrodurre sulla scena un piccolo soffio di quella grande paura metafisica che è alla base del teatro antico».
Questo «Essere» inventato, capace di rovesciare la scena, è, precisamente, il corpo dissolto e ricoagulato della Falconetti, con la sua figura irrapresentabile eppure incarnata ed estrema, che avanza sullo schermo quasi per una successione di crisi. Piani, campi e controcampi come segno di una morte attiva. La morte è sempre in azione e il cinema, se prestiamo fede dalle parole di Jean Cocteau, mostra il suo lavorio inesauribile.
Quello che anche a Ejsenstein pareva il peggior difetto del lavoro di Dreyer (l’aver, forse, assemblato fotogrammi, più che montato sequenze), traspone nella realtà del campo visivo e su un piano operativo pratico un’idea di estetica radicale e crudele. «Crudeltà è lucidità estrema», si potrebbe dire parafrasando ancora Antonin Artaud, e qui la crudeltà – come il principio di morte di Cocteau – è messa costantemente all’opera come principio di lucidità, capace di lavorare proprio a partire da quello che il luogo di maggior contraddizione (apparente?) del cinema: la distanza fra l’incarnazione, rappresentata dal set, e la spettralizzazione dei corpi e delle loro immagini estreme.
È su questo punto che, come osserva Alessandro Cappabianca nel suo L'immagine estrema. Cinema e pratiche di crudeltà (Costa&Nolan, Milano 2005), l’immagine estrema è proprio «quella che riesce a mettere in crisi, in senso quasi fisico, la nostra stessa sicurezza; quella che si rifiuta di essere semplicemente contemplata, anche in nome della sua bellezza formale o della sua acutezza intellettuale; quella che ci sconvolge, perché non riusciamo più a credere che sia solo un’immagine».
Quanto potesse sconvolgere l’esperienza con Dreyer, lo confermeranno indirettamente le parole di Antonin Artaud, un altro dei volti attivi di quella strana messa in scena della crudeltà che furono le riprese della Giovanna d’Arco. Fra i roghi di Dreyer, estenuanti preparazioni di scena, il cinema appariva allora come qualcosa di «più eccitante del fosforo, più ammaliante dell’amore, un ribaltamento completo dell’ottica e della logica», un pericolo, amava credere Artaud, per la vita degli attori e gli occhi degli spettatori.
Di Renée Falconetti, che proprio coi suoi primissimi piani rappresentava un urto sconvolgente e diretto contro quegli occhi, Artaud rimarcava che stava facendo alle immagini ciò che ancora nessuno era riuscito a fare al teatro: rovesciarlo da dentro. Prima di registrarne l’esaurimento precoce dichiarando, nel 1933, che «il mondo cinematografico è un mondo morto, illusorio e fatto a pezzi», Artaud era ancora convinto di poter ritrovare nel cinema e attraverso il cinema quella «disposizione primitiva delle cose» che, da tempo, il teatro pare avesse dimenticato. Ne sono prova due testi, scritti a ridosso della Giovanna d’Arco, Cinema e realtà e Stregoneria e cinema, in cui comincerà a delinearsi quella ricerca del corpo come calco di luce, secondo la definizione di André Bazin, il cui residuo di materia, per quanto gli attiene, sembra intravedersi sul set, nella vitalità del lavoro durante le riprese e non più nella sua traccia filmica.
L'uomo comune del cinema
Qualcosa, osserva Jean Louis Schefer ne L’uomo comune del cinema (a cura e con una postfazione di Michele Canosa, Quodibet, Macerata 2006) sembrava averli spinti (Artaud, Falconetti) a quella profondità del sentire che appartiene allo specifico del cinema e, in qualche modo, attiene a una particolare esperienza della memoria e alla contro-esperienza della sua riscrittura.
Composto su commissione, per la serie dei “Cahiers du cinéma”, il lavoro risponde dunque a precise esigenze editoriali che Schefer articola però in una serie di semplici, ma insidiosissime domande. In prima battuta, l’autore, che costantemente reclama e di continuo riafferma il proprio status di non specialista, si chiede: «Di che cosa è fatta la mia memoria»? In secondo luogo, ritornando a quella che è il suo vero ambito di ricerca, sviando però dalla retorica delle «analisi del film», Schefer afferma che, al di là di «qualche ricordo d’infanzia», la memoria è, appunto, «persistenza delle immagini». Il cinema, ne rappresenta il doppio. Schefer è uno studioso di arti figurative, oltre che raffinato traduttore del De Pictura dell’Alberti, e in Italia è stato apprezzato fin dalla sua prima opera, tradotta circa trenta anni fa per Ubaldini, Anatomia di un quadro. Un saggio di semiotica della pittura, definita da Roland Barthes «un lavoro princeps».
Passando oltre questo aspetto, comunque rilevante per afferrare la complessa e sfuggente struttura del lavoro, dopo una prima parte condotta secondo un metodo molto vicino al Barthes commentatore fotografico della Camera chiara, Schefer offre la chiave di accesso a quella vita del crimine, come titola la seconda parte del libro, che costituisce lo specifico affettivo del film e, al tempo stesso, sancisce la perdita di innocenza, l’ingresso a quell’altro stato della memoria che prelude alla costituzione di sempre nuove soggettività. Il cinema insegna a muoversi in «contro tempo», ad «avvertire in ritardo» la deriva comune del propriodestino. In questo senso, il riferimento all’«homme ordinaire» del titolo originale, non poteva essere reso in altro modo che con «comune», passando per la polisemia del latino «solitus», a cui lo stesso Schefer sembra in qualche modo ricollegarsi.
«L’uomo comune del cinema», si legge in apertura del libro, potrebbe concedersi «un’affermazione irrilevante: il cinema non è il mio mestiere». Eppure, proprio perché a parlare è questa persona comune, senza apparenti qualità, il suo discorrere si salva dal pericolo di cadere, ancora una volta, fra le maglie di «un discorso» o della «trasmissione di un sapere». Semmai, «quanto può dire quest’uomo comune appartiene a una scrittura» e alla ricerca che ha per oggetto «non una costruzione ma l’enigma di un’origine». Un’origine – come l’immagine di cui parla Cappabianca sullo sfondo del suo lavoro – oscillante, persecutoria, febbrile eppure lucida e inafferrabile… estrema.
Il cinema, nella riflessione di Schefer, appare come «l’unico campo di significazione ce non mi induca intimamente a credere all’esistenza di un soggetto delle operazioni di questa scienza». L’uomo ordinario sembra dunque «prestar voce a una particolare forma di memoria» legata all’esperienza di una «notte sperimentale» in cui, appunto, trovano risonanza tanto il tormento di Dreyer, quanto il volto senza maquillage di Renée Falconetti, quanto la dura, radicale necessità di sottomissione alla lucida incoscienza cui accennava Artaud.
Un lucidità del pericolo, non solo nel pericolo: forse è quella luce nera di cui parlava Derrida, l’elemento conoscitivo per cui la verità, svelandosi, deve negarsi alla vista. Il punto cieco in cui tutto precipita. Il cinema, prima di tutto. E noi con lui.
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