Cultura
Rwanda senza perch
Esce un testo teatrale dedicato al più terrificante genocidio della storia recente. Lo ha scritto Daniele Scaglione, ex presidente di Amnesty Italia.
Nel giugno del 2000 lessi la notizia di un uomo che aveva passato la notte in un parco nella città di Hull, in Quebec, ubriaco e imbottito di antidepressivi e ansiolitici. Si chiamava Romeo Dallaire ed era un generale costretto, circa un mese prima, a uscire dall?esercito canadese. Dal novembre 1993 all?agosto 1994, Dallaire aveva comandato i caschi blu che avrebbero dovuto garantire la pace in Rwanda. Non ci fu la pace, ci fu un genocidio. Pensai che il malessere del generale fosse dovuto all?aver assistito a scene di violenza inaudita. Ma c?era qualcosa di più.
Appena arrivato in Rwanda, Dallaire aveva capito la gravità della situazione. Chiese più volte rinforzi che non arrivarono mai. Anzi, dopo l?attentato del 6 aprile 1994 che uccise il presidente rwandese, i caschi blu furono ridotti da 2.500 a circa 250.
Male armati, senza medicine né viveri, Dallaire e i suoi uomini salvarono circa 25mila rwandesi. Ma i morti furono oltre 800mila.
Dallaire sta male anche o forse soprattutto perché sapeva che quel genocidio era facilmente prevenibile. Cinquemila soldati ben preparati avrebbero potuto fermare il massacro in qualsiasi momento. Cinquemila, vale a dire un quarantesimo di quelli che ora sono già schierati per la guerra in Irak. L?Onu e i capi dei più potenti governi del mondo lo sapevano benissimo, ma decisero di non intervenire.
Ho cercato di capire come sia stato possibile che nel ?mio mondo?, nell?ambito della mia ?cultura occidentale? sia stato consapevolmente deciso di non voler fermare un genocidio. Più che altro ne ho ricavato una grande inquietudine. Abbiamo imparato benissimo a giustificare ogni nostra mancanza, ogni fallimento nel tutelare i valori cui si ispirano le nostre democrazie. I dirigenti dell?Onu e di governi come quello francese e americano hanno tentato di spianare le montagne di cadaveri rwandesi con spiegazioni ridicole e al tempo stesso vergognose. L?unica spiegazione di questo fallimento è racchiusa nell?amara constatazione di Dallaire: “Esistono esseri umani più umani degli altri”.
Daniele Scaglione
Il padre di tutti i rwandesi, Gihanga, aveva tre figli, Gatwa, Gahutu e Gatutsi. Una notte chiese a ciascuno di loro di conservare un secchio di latte, l?elemento più prezioso del Paese. Gatwa, goloso, lo bevve tutto. Gahutu in parte lo bevve, in parte lo rovesciò e rimase con solo metà di ciò che gli aveva assegnato il padre. Gatutsi restituì tutto il latte che gli era stato affidato. Gihanga decise allora che Gatutsi avrebbe ricevuto in affidamento le sue vacche, Gahutu avrebbe dovuto guadagnarsele lavorando la terra, Gatwa se le poteva scordare, qualunque cosa facesse.
Questa leggenda spiega le divisioni sociali: i nobili tutsi, ricchi allevatori, dominano il Rwanda. Gli hutu, maggioranza nel Paese, sono contadini. I twa, un piccolo gruppo di pigmei, sono all?ultimo scalino della classe sociale. E in questo stato di cose, tutto va bene per secoli, al punto che il Rwanda non viene toccato dal commercio degli schiavi che devasta per secoli la Madre Nera.
Poi a Berlino, nel 1885, i più importanti capi di Stato europei si incontrano per confrontare desideri e pretese sulle terre conosciute e sconosciute. Per quanto riguarda l?Africa, i lavori si svolgono a colpi di matita e righello (avete fatto caso, vero, a quanto i confini di questi Paesi siano ancora oggi dritti in modo impressionante?).
Il Rwanda, però, viene risparmiato dal perfezionismo dei cartografi e assegnato così com?è alla Germania. Un conte teutonico arriva in Rwanda e viene ricevuto con tutti gli onori dal re, un nobile tutsi che governa il Paese. Nessuno gli ha ancora comunicato cosa gli europei hanno deciso a Berlino.
Il conte cerca di spiegare al re che, ai sensi di quanto deciso dalle auguste signorie, monarchi nominati ciascuno dall?altissimo fattore, toccherebbe ai tedeschi governare e non più a lui? ma sarà il caso, sarà che gli europei portano sfiga, passano pochi mesi e il monarca muore. Tra i vari clan rwandesi si scatena una dura lotta per la successione e i tedeschi provano a fare il loro gioco. “Ragazzi, non litigate, ci facciamo carico noi di tutti i vostri problemi. Voi controllate il territorio, a tutto il resto pensiamo noi”. Così i tedeschi mettono a governare in loro vece una piccola parte di tutsi, circa il 3% dell?intera popolazione. Gli altri, hutu e tutsi che siano, pedalare?
Con la prima guerra mondiale il Rwanda passa ai belgi, che vogliono fare le cose con metodo. Insieme a militari e dirigenti amministrativi, il re del Belgio invia in Rwanda anche scienziati armati di bilance, metri e compassi. Questi scienziati iniziano a pesare la gente, misurare i crani e, soprattutto, a valutare le forme dei nasi.
Il tutsi medio ha un naso più lungo di due millimetri e mezzo e più stretto di cinque millimetri di quello di un hutu: una incontrovertibile prova di superiorità. Un medico belga specifica che i tutsi “sono distinti, riservati, cortesi e di modi eleganti”, mentre il resto della popolazione, gli hutu, “sono negri con tutte le caratteristiche negroidi? sono infantili, sia timidi sia pigri e, più spesso che no, estremamente sporchi”.
Insomma, anche per la scienza i tutsi sono i migliori, i più attivi, i più determinati e quindi destinati a regnare.
Gli stereotipi si formano facilmente e sono duri a morire. Noi italiani, gente seria, ci cantiamo sopra: “siamo i vatussi, siamo i vatussi, gli altissimi negri?”.
In realtà, tra tutsi e hutu non esiste alcuna differenza etnica. Certo, hanno provenienze differenti, ma sono insediati in Rwanda da secoli. Si sono mischiati, parlano la stessa lingua, hanno la stessa religiosità tradizionale, gli stessi miti, gli stessi proverbi, si sposano e si seppelliscono nello stesso modo. Nascono e muoiono nello stesso modo. Proprio come noi italiani.
Il discrimine è solo una questione di vacche. I belgi, per distinguere gli uni dagli altri, utilizzano infatti questa raffinata analisi contabile: chi possiede almeno dieci mucche è un tutsi, chi ne possiede di meno, è un hutu.
Nel 1932 i belgi introducono una brillante innovazione: la ?carta d?identità etnica?. Su questo documento viene scritto se si è hutu, tutsi o twa e non c?è più modo di passare da un gruppo all?altro, come invece era stato in passato. Il mescolamento tra i due gruppi finisce lì.
A fine anni 50, in tutta l?Africa si solleva l?ondata anticolonialista. Il primo luglio 1962 nasce la repubblica rwandese. Il primo presidente è Gregoire Kaybanda. Per la prima volta un hutu al potere? ma Kaybanda rappresenta solo una piccola élite. I clan hutu del nord non fanno i salti di gioia per questo presidente.
Così, nel tentativo di distrarre i critici, Kaybanda avvia un giochino semplice e perverso: dà la colpa di tutti i problemi ai tutsi. Altro che esseri superiori! Sono loro la causa di ogni guaio del Rwanda, loro che da decenni opprimono la maggioranza hutu del Paese. E scatena la caccia ai tutsi. Decine di migliaia di tutsi scappano nei Paesi vicini, soprattutto Uganda e Burundi.
Il Burundi, piccolo Paese confinante, ha avuto più o meno la stessa storia del Rwanda. Ma qui, dopo l?indipendenza, a governare continuano a essere i tutsi. Nel 1972 gli hutu del Burundi tentano un golpe, che fallisce. I tutsi al potere reagiscono nel peggiore dei modi. È un massacro: muoiono 200mila hutu.
Gli hutu rwandesi sono terrorizzati e Kaybanda cerca di sfruttare lanciando ancora una volta l?appello all?unità degli hutu per lottare contro il ?tutsi cattivo?.
Questa volta però non riesce a salvarsi. Il 5 luglio 1973 gli hutu del nord attuano un colpo di Stato contro gli hutu al governo: al potere sale il capo dell?esercito, il generale Habyarimana.
Il suo motto è ?pace, unità e sviluppo? e in effetti sotto la sua presidenza le condizioni di vita dei rwandesi migliorano, benché l?emarginazione dei tutsi non si arresti. Il messaggio che gli invia il presidente è più o meno questo: “cari tutsi, state lontani dai posti di potere ed eviterete di finire nei guai”. È una discriminazione documentata dai rapporti di associazioni come Amnesty International e Human Rights Watch.
Ma non li legge nessuno e così molti stranieri cominciano a pensare al Rwanda come a un?isola felice, tant?è che la chiamano la ?Svizzera africana?. Habyarimana sembra tanto aperto e modernizzatore quanto il suo predecessore era chiuso e conservatore. Viaggia per il mondo, fa amicizia con tanti capi di Stato. Sua moglie Agathe diventa famosa per i suoi frenetici shopping parigini.
E mentre la signora passa di negozio in negozio, Habyarimana si intrattiene piacevolmente con il presidente François Mitterrand e suo figlio Jean Christophe, dinamico commerciante di armi.
da Daniele Scaglione,
Istruzioni per un genocidio. Rwanda: cronache di un massacro evitabile
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