Non porta segni che ne attestino la divinità, ma solo necrosi e ferite, umanissime tracce di un supplizio comune, il Cristo deposto che Hans Holbein realizzò a Basilea, nel 1521. Una tavola che, tra le pieghe di un magistrale détournement narrativo, tecnica di cui fu maestro, ispiro a Dostoevskij un celebre «episodio a margine» nel tormentato, donchisciottesco, calvario del giovane Myskin, il protagonista dell’Idiota.
«Il volto atrocemente sfigurato dai colpi, gonfio, con ecchimosi sanguinanti e terribili, gli occhi sbarrati, le pupille che guardano di traverso, e il bianco dell’occhio che brilla di un riflesso vitreo… Quando si osserva questo quadro, la natura prende l’aspetto di una bestia enorme, spietata e silenziosa, anzi, assume l’aspetto di un’enorme macchina, che afferra, inghiotte, fa a pezzi, dilania, sempre sorda e insensibile».
A parlare è Ippolit, un tubercolotico prossimo alla fine dei suoi giorni, tremendamente segnato dalla visione di una copia dello scandaloso simulacro – una specie di doppia icona, rovesciata, che ruba luce al giorno restituendo turbamenti e strazio, incrociata per sventura nella bottega del mercante Rogozin – in quello che rimane, al di là delle innumerevoli postille filosofiche e morali che dalla vicenda hanno tratto spunto, uno dei picchi più alti di quella «letteratura come confessione», ed esperienza, a cui si riferivano, con sfumature diverse, due osservatori precisi ed esigenti come Sestov e, soprattutto, María Zambrano.
«Se avesse potuto vederla così, la propria immagine», si chiede Ippolit, «Cristo sarebbe salito ancora sulla croce?» Questione, come e più che in Giobbe, drammaticamente elusa, tanto che, nelle pagine dell’Idiota, chiosa Philippe Jaccottet, in una delle tre affascinati digressioni che compongono La parola Russia, a cura di Antonella Anedda (Donzelli, Roma 2004), nessuna voce si arrischia a suggerire a Ippolit che, al contrario di quello che vede, sente, o semplicemente crede di sentire e vedere, «tutta la speranza poteva essere là», in quel corpo senza gloria e senza luce a cui nessuna sofferenza pare esser stata risparmiata. Chi legge Dostoevskij, «non vede gran che della Russia». Non ci sono meticolose descrizioni di paesaggi, distese, o città.
«Quando penso ai suoi libri, non vedo che notte», e, continua Jaccottet, ogni volta ritorna la tentazione, vagamente rassicurante, di istituire associazioni con le tele di Rembrandt, il «martire del chiaroscuro» secondo la definizione di Osip Mandel’stam, poeta a cui è dedicato lo scritto finale del libro. Gli stessi volti contaminati dalle tenebre, se non fosse che la rassomiglianza si rivela a dir poco incerta, per via di quella singolarissima febbre del limite, inquietante frenesia che popola di demoni l’inconscio dei personaggi di Dostoevskij, sempre a caccia di un improbabile risveglio. Eppure, anche l’idiozia innocente di Myskin potrebbe essere intesa come «splendore», o come capacità di accogliere, e percepire, «l’una accanto all’altra, l’oscurità e la luce, le tenebre e il chiarore». Un’apertura al mondo resa possibile proprio da una condizione di estrema fragilità e debolezza in cui, se riprendiamo le parole di Simone Weil, «le ferite» mostrano la fatica e il dolore, ma anche «il mestiere di rientrare nel corpo», di farvi rientrare, con la sofferenza, «l’universo».
L’innocenza-idiozia, forse anche l’ignoranza (nel lessico, questa volta, di quell’Hölderlin di cui Jaccottet è traduttore), scrive la Anedda, sta allo sguardo così «come il balbettio alla voce: sono i ritmi di ciò che riconosce dentro il corpo la pausa e la difficoltà, l’accecamento davanti alla luce e la necessaria protezione». Jaccottet costruisce infatti le sue riflessioni attraverso una specie di stratificazione, un doppio registro di immagini e di parole biascicate.
Già Mandel’stam suggeriva una prospettiva che non pare estranea alle suggestioni, e ai rinvii messi all’opera da Jaccottet:«Mi pare che Dante abbia studiato con attenzione tutte le pronunce difettose, che abbia accuratamente ascoltato i balbuzienti; si dovrebbe parlare a lungo del colorito sonoro dell’Inferno».
«Alla parola “Russia” sono legate inizialmente solo poche immagini» giovanili, correlate alla lettura del Michele Strogoff di Verne, o a parole che si incidono nella memoria per la loro «sonorità rude, quasi brutale» che suona come uno schiocco di frusta. Ma è attraverso un filo sottile che passa da Cechov, al Rilke del Libro d’ore, per giungere fino al ghiaccio dell’inferno siberiano della Kolyma, e dei sempre troppi lager di Stato, che anche il colorito sonoro rievocato da Mandel’stam sembra sparire, azzerato da quella «perversità del cuore» che lascia spazio solo a una «lingua monocorde, povera, dura come giorni di ghiaccio e di pietra», e, soprattutto, che non sa, né «può vibrare». In fondo a quest’inferno, non ci sono neanche le fiamme, solo un terribile gelo.
Eppure, chiude lucidamente Jaccottet, «dovremmo rendere al nostro secolo il raro merito di aver fatto affiorare alla superficie del mondo reale, con degli uomini reali, la scena più dura che un genio implacabile abbia mai immaginato».
Un invito a lasciarsi alle spalle, non gli orrori del passato (non migliori, certo, di quelli presenti), ma il «triste buco» del silenzio, e «a ritornar nel chiaro mondo».
«Un’immensa distesa a est del cuore», ecco ciò che rimane di quella preziosa, tragica, ferita che ha nome “Russia”.
@oilforbook
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