Cronache russe
Russia, la strategia della sopravvivenza nello Stato dissociale di Putin
Come spiegare il paradosso che vede il 70% dei cittadini russi interpellati nei sondaggi sostenere l'operazione militare speciale e allo stesso tempo, se il governo dovesse avviare negoziati di pace, dichiararsi pronto a sostenere questi sforzi? La riflessione di Bayanov riannoda il filo rosso della storia di questo Paese che dagli Zar arriva a Putin passando per l'Unione sovietica
I processi sociali che stiamo osservando in Russia richiedono ulteriori commenti sulla natura di questi cambiamenti nell’opinione pubblica.
È necessario in qualche modo spiegare il paradosso che vede il 70% degli intervistati sostenere l’operazione militare speciale e allo stesso tempo, se il governo dovesse avviare negoziati di pace, dichiararsi pronto a sostenere questi sforzi, o le promotrici del movimento di madri e mogli dei mobilitati, Put’ Domoj (“La via di casa”), che chiedono alle autorità il ritorno a casa dei loro uomini e allo stesso tempo dichiarano la loro completa lealtà alle autorità, nella persona del presidente Putin, e sostengono l’operazione militare speciale, dichiarando di conseguenza: non siamo contro lo Stato, ma sosteniamo i nostri uomini.
Prima di iniziare questa riflessione, vorrei richiamare l’attenzione su un aspetto. La reazione alla guerra tra Ucraina e Russia in Italia non è stata univoca. Vi è stato un primo nucleo che giustamente si è espresso a sostegno dell’Ucraina, ricordando che ogni guerra sul territorio europeo porta a disastri per tutti. In questo gruppo di persone all’inizio molti non sapevano nemmeno dove fosse questa Ucraina (nel liceo dove studia mia figlia quando l’insegnante ha chiesto dove si trova l’Ucraina, i ragazzi hanno risposto: «In Africa». Alla domanda sorpresa dell’insegnante sulle ragioni di questa risposta, la spiegazione è stata: «Perché tutti gli immigrati in Italia vengono dall’Africa». Comunque, avendo una vasta esperienza nell’interazione con migranti e rifugiati, questo gruppo di persone, rispondendo al grido di dolore e alla richiesta di aiuto dell’Ucraina, è stato immediatamente coinvolto nel processo umanitario che è ancora attivamente in corso.
C’è poi un altro gruppo, che riunisce associazioni come Russia Cristiana o i dipartimenti e le facoltà di lingua russa o di cultura russa delle università. Quello che interessa a questo gruppo è la Russia stessa, la sua storia, la sua cultura, la lingua russa, l’ortodossia e così via. Questo gruppo conosce bene la storia della questione russo-ucraina, i problemi alla sua base, l’influenza del passato imperiale e sovietico in questa tragica situazione. Lo shock vissuto da questi miei amici nel febbraio dell’anno scorso è stato quasi maggiore di quello provato da quei russi e ucraini che ora sono in Europa come esuli o rifugiati. Molti di loro, i “russofili”, stanno cercando di elaborare giustificazioni per quanto accaduto, non possono “tradire” l’amore per la Russia. Questa posizione, umanamente comprensibile, fa il gioco della propaganda ucraina, che è parte inevitabile della strategia militare e che in sostanza non è diversa da quella russa con una differenza: se la propaganda russa fa pieno uso del passato sovietico, la propaganda ucraina semplicemente lo censura e costruisce cliché propagandistici basati su obiettivi immediati, inclusa l’abolizione della cultura russa. È tuttavia evidente che in passato le autorità di questi due Paesi fondatori dell’Urss, secondo la Costituzione sovietica, hanno avuto identica responsabilità nel genocidio perpetrato ai danni dei loro stessi cittadini.
Le conseguenze di questo genocidio sono evidenti ora soprattutto in Russia e possono essere definite una catastrofe antropologica. È molto difficile ammetterlo, ma è anche necessario, per identificare la via d’uscita da questa impasse. L’Ucraina dovrà affrontare lo stesso processo, ma per questo, prima di tutto, è necessario che finiscano la guerra e le immediate, terribili sofferenze fisiche del popolo. Saranno prima di tutto gli intellettuali e la società ucraina a dover affrontare questi problemi.
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Le riflessioni contenute in questo articolo sono indirizzate ai due gruppi menzionati sopra, alle persone che ne fanno parte, che hanno dimostrato interessamento e lealtà. Queste riflessioni potrebbero risultare controverse, ma anche questa è una buona cosa perché susciteranno domande.
Cosa è successo alla “santa Rus’”? Con quali conseguenze del tragico passato sovietico abbiamo a che fare adesso? Perché uso un termine così forte come “disastro antropologico”?
Ho un amico sociologo che ora vive in Europa e che prima della guerra ha lavorato per alcune aziende multinazionali. Per motivi personali, anche di sicurezza, ha chiesto di rimanere anonimo, ma ha condiviso con me ciò che ha potuto osservare direttamente nella sua attività lavorativa.
Mentre conduceva una ricerca di marketing, si è imbattuto in una posizione completamente nuova dei cittadini russi, che ha riconosciuto in tre diverse occasioni.
La prima. Conducendo uno studio sulla fedeltà al marchio della banca Tinkoff, l’intervistato ha dichiarato: «Non mi piace la banca Tinkoff per la posizione anti presidenziale del suo proprietario (l’intervistato non sapeva che, proprio a causa delle sue dichiarazioni contro la guerra, il proprietario è stato praticamente estromesso)». In un altro focus group è stato detto: «Vtb è una banca degli amici di Putin, non voglio avere a che fare con loro». Ma, cosa molto importante per le nostre riflessioni successive, questo non ha impedito a nessuno dei due di ricevere i 5mila rubli (50 euro) per la partecipazione al sondaggio, caricate su una carta emessa dalle due banche che, per ragioni opposte, non apprezzavano.
La seconda. Durante il focus group un intervistato, sostenitore del governo, ha detto quanto segue: «Credo che l’operazione militare speciale finirà presto e finirà bene!» (bene, cioè con la vittoria russa) e ha aggiunto: «Come dice una canzone di un gruppo di ottimi musicisti, molto noti in certi ambienti: tutto questo passerà». Cioè, crede nella vittoria e allo stesso tempo cita una canzone vietata in Russia e contraria alla guerra con l’Ucraina del gruppo punk “Pornofilm”.
La terza situazione ha avuto come protagonista proprio il mio amico, mentre attraversava a piedi il confine con la Lituania. A Sovetsk, una città al confine, è stato controllato a lungo dalle guardie di frontiera e dai doganieri, tutti figli di ufficiali sovietici. Questi ragazzi sono cresciuti in varie basi militari del Paese e non riescono a immaginare che sia possibile vivere senza gradi e senza indennità statali. «Tutti mi hanno chiesto con orrore come vivevo in Lituania», dice il mio amico. «Io ho risposto che ci sto bene, che mia moglie è lituana e che non ho problemi. Conosco l’inglese, sto imparando il lituano. Al che, mentre fumavamo una sigaretta, tutti hanno detto “Certo, se potessi, vorrei anch’io vivere lì».
È una posizione completamente nuova per questi anni recenti. A quanto pare la guerra con l’Ucraina ha riportato in auge la strategia di sopravvivenza, ben nota in epoca sovietica, che potremmo definire doppio pensiero. Cioè, penso una cosa ma ad alta voce dico qualcosa di completamente diverso, qualcosa che possa piacere alle “autorità”. La tragica storia della repressione non è diventata oggetto delle necessarie procedure di riconciliazione e pentimento che sono state portate avanti in altri Paesi dell’Europa, dell’Africa, dell’Asia e del Sud America passati attraverso una dittatura. La posizione offuscata e non più completamente cristiana della chiesa e, come si è scoperto, una società completamente secolarizzata hanno contribuito al ritorno degli istinti comportamentali caratteristici dell’epoca sovietica. Il fattore scatenante è stata la posizione scelta dalle autorità russe, che può essere tranquillamente definita dissociale. Il termine è ben noto in psicologia e psichiatria. Questa posizione è caratterizzata dall’utilizzare gli altri a proprio vantaggio, giocando sulle loro debolezze o sulla loro compassione sfruttando i propri punti di forza, la capacità di conquistare gli altri, di dire ciò che gli altri vogliono sentire, l’indifferenza verso i propri doveri, l’aggressività e l’impulsività, l’incapacità di tollerare gli insuccessi e di imparare dalla propria esperienza, la tendenza a dare descrizioni della realtà che sembrano folli e allo stesso tempo la capacità di valutare ciò che sta accadendo e un’elevata intelligenza verbale.
In risposta a tale comportamento dissociale delle autorità, la società ha scelto la strategia della sopravvivenza. Anche i russi che non hanno mai vissuto l’Unione Sovietica la conoscono bene, perché è stata conservata nella tragica esperienza familiare.
Anna Varga, dottore in psicologia e professore presso una delle migliori università russe, la Scuola Superiore di Economia (una delle poche i cui studenti hanno ancora l’opportunità di studiare in Italia in scambio) ritiene che queste strategie di sopravvivenza derivino da un concetto noto in psicologia come “miti familiari” che accomunano non solo una famiglia, ma a volte un’intera nazione. Tali miti includono il mito dei “sopravvissuti”, scrive Varga. «Sopravvivere in condizioni difficili è uno skill nazionale e una necessità urgente: lo Stato è sempre stato ostile alla popolazione. La vita in Russia era ugualmente difficile per la stragrande maggioranza della popolazione. Le capacità di sopravvivenza non erano un mito, erano semplicemente vitali. Non si poteva sottrarsi al carcere e ai soldi: chiunque poteva in un attimo diventare povero e/o essere arrestato. Le principali professioni nell’Unione Sovietica, che ha ereditato le tradizioni di sopravvivenza della Russia zarista, erano il medico e il sarto: professioni necessarie per sopravvivere nei lager».
Le strategie comportamentali per la sopravvivenza prevedevano, ad esempio, che ai bambini fosse vietato parlare fuori casa di ciò di cui si parlava in famiglia. Così sono riapparsi e continuano a manifestarsi la doppia moralità e il doppio pensiero.
«Nell’era della stagnazione, il segno che si sopravviveva bene erano cibo e abbigliamento un po’ migliori della media”, dice Varga. Saper cucinare “qualcosa dal nulla”, cucire, lavorare a maglia o riuscire a procurarsi qualcosa che scarseggiava erano doti apprezzate. È molto comune per i “sopravvissuti” trovare nuove energie durante i periodi di crisi economica. Le strategie abituali vengono immediatamente messe in atto, ad esempio fare scorte. La mia vicina, una giovane donna con tre figli, proprietaria di una piccola catena di saloni di parrucchiere, mentre eravamo in ascensore si è consultata con me sull’opportunità di comprare una tonnellata di grano saraceno. Lei stessa non ha mai vissuto in ristrettezza, ma il ricordo dei suoi antenati le ha suggerito come comportarsi. Oggi l’idea di acquistare una tonnellata di cereali sembra strana, ma gli abitanti di Leningrado che nell’estete del 1941 fecero scorte come nel 1940 e nel 1939, grazie a questo sopravvissero all’assedio. Putin ci ha riportato indietro: se ti lasci sfuggire qualcosa, non lo trovi più (a causa delle sanzioni imposte, è tornato il deficit dei tempi sovietici). Il nemico esterno ha acquisito tratti precisi: non siamo noi ad aver sbagliato, è l’anello dei nemici che si fa più stretto attorno a noi. Presto faranno la loro comparsa anche i nemici interni (ci sono già più di 600 prigionieri politici), per metterci completamente a nostro agio. Quindi non è colpa di Putin, e noi continueremo a sostenerlo».
Ecco perché otteniamo risultati così paradossali dai sondaggi d’opinione e comportamenti così paradossali da parte delle mogli e madri dei mobilitati. «Dal punto di vista strategico, un “sopravvissuto” pensa a brevissimo termine. Riuscire almeno a resistere un giorno e una notte. Ecco perché non ha e non può avere un’immagine ben ponderata di un futuro positivo né per sé né per i suoi connazionali. In Russia non esiste una cultura consumistica», chiosa Varga.
E ancora: «Crescere in famiglie di ricchi sopravvissuti è molto contraddittorio: da un lato, ai bambini viene concesso un elevato standard di vita materiale, viene loro comprato tutto ciò che il denaro può comprare. Ma vengono rimproverati di non apprezzarlo abbastanza. I genitori parlano di quante difficoltà e perfino povertà hanno dovuto sopportare come se rimproverassero il figlio per non aver avuto la stessa esperienza. Ma al tempo stesso cercano di risparmiarlo in tutto: non limitano i soldi, non viene mandato a lavorare in posti dove il loro nome non conti. I genitori apprezzano il proprio percorso di sopravvivenza, ma non permettono ai figli di percorrerlo per sé. Pertanto, i figli si trovano in una strana posizione: vengono loro concessi dei benefici, per i quali vengono disprezzati. Si crea una classica situazione di double bind, che aumenta la demotivazione dei ragazzi, spingendoli a cercare piaceri momentanei come protezione dal loro disagio esistenziale – fino all’alcol e alla droga».
Come abbiamo già notato, le principali emozioni di un sopravvissuto sono la paura, l’ansia anticipatoria, la sfiducia negli altri. «La disattenzione e il relax sicuramente non aiutano a sopravvivere”, osserva la studiosa. Il “sopravvissuto” è sempre in guardia perché deve prevedere il pericolo. La presenza del pericolo è certa. Le persone che non vedono i pericoli del mondo che li circonda vengono percepite come degli idioti- Il valore fondamentale per i sopravvissuti è il proprio benessere. Oggi muori tu, io aspetto domani! Di solito non si preoccupano del benessere delle altre persone. Mancano di senso di responsabilità sociale, così come di moralità e di valori».
E nella lealtà all’autorità, che le madri e le mogli del personale militare sottolineano costantemente, le ragioni diventano chiare.
“I “sopravvissuti” sono particolarmente diffidenti nei confronti di coloro da cui dipendono”. Ad esempio, quando il figlio di un “sopravvissuto” è vittima di bullismo a scuola, il genitore non entrerà in conflitto aperto. Crede che se litiga con gli insegnanti, inizieranno a danneggiare il bambino. Pertanto, o si schiererà dalla parte degli insegnanti spiegando al figlio che è colpa sua, oppure inizieranno a fare regali a chi bullizza il figlio, per tenerselo buono”.
«Una nazione di “sopravvissuti” non può unirsi per lottare per i propri diritti, per una vita migliore. Sono spaventati. Come ha detto un tassista: scenderò in strada (per manifestare) quando lo faranno tutti gli altri».
La tragica frammentazione, la dualità del popolo russo moderno, basata sulla paura causata dal comportamento dissociale delle autorità, questo è ciò che intendo per “catastrofe antropologica”. Il popolo russo, in generale, non è preoccupato per la guerra in Ucraina, tranne che se il rischio di finirci in mezzo tocca sé o i propri cari. Alla gente non interessa l’agenda della propaganda, tranne se è a rischio il “potere”, lo Stato. Ciò riporta immediatamente in vita parte del “mito familiare” sul crollo dell’Unione Sovietica e sulla scomparsa dello Stato in generale: le guerre criminali, l’illegalità e la povertà degli anni ’90. E se lo Stato scompare o cessa di essere una potenza dissociale, allora non si sa cosa fare. Con se stessi, con la propria famiglia, con il proprio Paese.
Ma questa situazione non può durare indefinitamente. Prima o poi questa tragica mancanza di personalità tornerà ad assumere un volto. E potremo vedere la Russia vera, autentica, quella di cui ci hanno parlato Tolstoj e Dostoevskij.
Credit foto: La Presse
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