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Ruspe in azione, il muro israeliano arriva tra le famiglie cristiane di Betlemme

Tre mesi dopo aver dato ragione alla comunità locale che si opponeva alla costruzione della barriera di separazione tra Israele e Palestina nei pressi di Beit Jala, la Corte con un improvviso dietro front ha dato il via libera: "già sradicati ulivi secolari, le famiglie sono sconvolte", spiega il sacerdote italiano Mario Cornioli, che vive lì dal 2002 e in questi giorni concelebra messa davanti a soldati e macchine. Per il Patriarcato latino "è una ritorsione per il recente riconoscimento dello Stato palestinese da parte del Vaticano"

di Daniele Biella

Don Mario Cornioli, 44 anni, proveniente da Fiesole, Toscana, si è presentato presto, attorno alle 8 di mattina, al posto di blocco dell’esercito israeliano. Al suo fianco, il parroco locale di Beit Jala, padre Aktam, con in mano un’effigie della Madonna e, a voce, la richiesta di concelebrare messa poco più in là, in quel terreno da sempre proprietà di una famiglia cristiana della valle di Cremisan, alle porte di Betlemme, ma da tre giorni requisito dalle autorità di Israele con tanto di ulivi secolari – per giunta l’olio è parte importante del sostentamento della comunità locale – perché lì dovrà passare a breve il famigerato muro di separazione tra territori israeliani e palestinesi, più volte condannato dalla Corte penale internazionale ma sempre più lungo e a ridosso delle case dei palestinesi, se non in mezzo.

La storia, come spesso accade da queste parti, ha dell’assurdo: nove anni di contenzioso giuridico tra il governo, che vuole far passare il muro proprio attraverso la valle di Cremisan, dove ci sono case e terreni delle 58 famiglie cristiane di Beit Jala, che finirebbero in territorio israeliano, coinvolgendo tra l’altro anche un monastero e un convento salesiano, destinati invece a rimanere nella parte palestinese. Le famiglie solo tre mesi fa avevano cantato vittoria perché la stessa Corte, che pochi giorni fa ha dato l’ok per la costruzione, allora l’aveva bocciata. Cittadini che si sono ritrovati le ruspe nei campi dietro casa, con annessi i soldati con mitra spiegati verso chi osa avvicinarsi: “Siamo stravolti, la decisione è stata inaspettata e sta provocando sgomento e dolore, perché il muro sorgerà attaccato alle case e rovinerà la vita quotidiana delle centinaia di persone che vivono qui”, ci spiega abuna Cornioli appena finita la messa, “celebrata davanti al posto di blocco perché i soldati ci hanno impedito di arrivare nella zona degli ulivi sradicati”.

Questa mattina, la terza, si sono presentati al momento simbolico di protesta “anche tre cittadini israeliani, più varie persone dei comitati popolari palestinesi: due di questi ultimi ieri sono stati detenuti dall’esercito per poi essere rilasciati in serata”, spiega il prete italiano, in Palestina dal 2002, pochi mesi dopo avere preso i voti, e oggi collaboratore del Patriarcato latino di Gerusalemme, il cui Patriarca ha si è sempre espresso a favore della comunità locale di questa zona finora pacifica, la valle del Cremisan, definendo “una vittoria per tutti, compreso Israele”, l’oramai superata decisione della Corte di non costruire lì il muro. Ma perché questo improvviso, grave dietrofront? “Nessuna motivazione ufficiale, ma secondo lo stesso Patriarcato potrebbe essere una ritorsione israeliana dopo che di recente il Vaticano ha riconosciuto ufficialmente lo Stato di Palestina”. Ritorsione che ora “getta nella disperazione centinaia di persone, arrabbiate perché sanno oramai come vanno queste cose: una volta preparato il tracciato, sradicati gli alberi e portata via la terra, anche in caso di blocco giuridico, al successivo tentativo chi vuole costruirlo avrebbe vita più facile perché i lavori sono già stati iniziati”, spiega Cornioli (che ha anche un proprio blog, molto seguito), accennando a una prassi che negli ultimi anni ha portato al superamento dei ricorsi legislativi della popolazione palestinese in diversi punti di costruzione della barriera di separazione, definita da molti, compreso il movimento Pax Christi, muro dell’Apartheid.

In tale drammatica situazione, abuna Cornioli e rappresentanti delle famiglie cercano di parlare con i soldati, “essi stessi in difficoltà, non ci guardano mai negli occhi”, e con le autorità presenti per convincerli a fermare i lavori, mentre la società Saint Yves, Centro cattolico per i diritti umani, ha presentato fin da subito ricorso, nella speranza che qualcosa cambi molto presto, a favore della comunità locale. “Nel frattempo, noi continuiamo a essere presenti sui luoghi dove agiscono le ruspe, in preghiera e senza abbassare mai la guardia”, indica il prete italiano.

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