Famiglia
Ruini, Welby e la ragazza di Vibo Valentia
Si difende ad oltranza la vita quando è in condizione estrema. Ma sarebbe meglio buttare energie per evitare le vittime della malasanità ...
È drammaticamente curiosa la coincidenza. Piergiorgio Welby chiede di interrompere il funzionamento del respiratore che lo tiene in vita, e il suo caso diventa un caso nazionale, e addirittura internazionale. Un respiratore che dovrebbe funzionare, in una sala operatoria di Vibo Valentia, non funziona perché la sua spina non è stata attaccata alla presa giusta, e una ragazza di 16 anni finisce in coma mentre viene operata di appendicite. Anche la sua storia diventa nota subito e turba le coscienze. Negli stessi giorni il cardinale Ruini chiarisce il suo tormento nel dire no ai funerali religiosi di Welby e sostiene che non era possibile concederli perché «il defunto fino alla fine ha perseverato lucidamente e consapevolmente nella volontà di porre termine alla vita».
Francamente non trovo corretto questo giudizio così semplificatorio. Welby in realtà chiedeva insistentemente che non fosse una macchina a tenerlo artificialmente in vita, prolungando uno stato di sofferenza per lui insostenibile. Posso non condividere questa insistita richiesta, ma non trovo giusto confonderla con un desiderio di morire tout court.
E forse, paradossalmente, proprio chi ama terribilmente la vita arriva a considerarla inaccettabile in condizioni degradate e dolorose. Se non si esce da questo schema incardinato sulla difesa di principi lontani, non solo non si trova una risposta per tutti, ma sicuramente ci si allontana da un dialogo possibile, delicato e impervio, ma ancora possibile. E poi la vita di quella ragazza, determinata dal malfunzionamento di una macchina, ci riporta violentemente al grande paradosso: difendiamo la vita in condizioni estreme, non difendiamo abbastanza la vita quando ci è affidata in tutta serenità, per una banale operazione di routine.
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