Mondo

Ruanda. Un paese in bilico

Nove anni dopo il genocidio, il Paese vive una tranquillità almeno apparente. Le elezioni hanno confermato la leadership di Paul Kagame.

di Angelo Ferrari

da Butare (Rwanda)
Sulle colline la vita scorre tranquilla. Sono passati nove anni da quel terribile aprile del 1994, quando il Ruanda è piombato nel caos, eppure i segni del genocidio sono rimasti. Indelebili, scritti nella memoria, sulla pelle dei sopravvissuti, nelle coscienze delle vedove, degli orfani, negli occhi dei carcerati accusati di quell?orribile delitto.
Su ogni collina, in ogni villaggio, sorge un memoriale fatto di crani fracassati dai macete o dai colpi di martello, di femori, di tibie di anonime vittime. Poi ci sono i corpi, nella postura di quando la follia omicida li ha colti, con ancora la smorfia del terrore su ciò che rimane del volto. Cosparsi di calce per conservarli e messi lì su tavole di legno a futura memoria. Alcuni ancora nei luoghi dove sono stati uccisi, quasi a ricomporre la macabra scena. La vita accanto alla morte.
In Ruanda tutto ruota attorno a questi memoriali. Sembra che la vita non si voglia staccare dalla morte. Più che un ricordo diventa un?ossessione tremenda. Il genocidio è ancora lì e il governo lo usa abilmente. Intanto nel vicino Burundi, per analoghe ragioni, si combatte, in Congo la guerra non è finita e il Ruanda è una forza d?occupazione. Eppure nel piccolo Stato della regione dei Grandi Laghi tutto scorre tranquillo ma è una tranquillità che un banale alito di vento potrebbe spazzare via in un istante, facendo tornare paura, orrore e dolore. Il genocidio è sulla bocca di tutti ma guai a insinuare qualche dubbio su ciò che sta accadendo oggi.

Il potere anglofono
Salendo da Butare, città universitaria nel sud del Paese, verso Mugombwa incontri povera gente che cerca di sbarcare il lunario come può. L?acqua è appena arrivata, grazie a un progetto di Variopinto, associazione di Limbiate, una delle poche italiane che lavorano ancora in Ruanda, e la gente non deve più scendere dalla collina fino alla valle.
Eppure in un luogo dove, pur nella povertà, la vita scorre tranquilla, vedi i segni del potere. La gente parla francese, il sindaco di Mugombwa no, solo inglese. è un ugandese, forse figlio di quei ruandesi tutsi fuggiti nel ?59 dal Paese. Nato, vissuto, cresciuto in Uganda. Ora governa un villaggio che non gli appartiene. Il potere è capillare, arriva in ogni collina e anche lì c?è un memoriale al genocidio. Un incubo ricorrente. Ed è così ovunque. Eppure la parola d?ordine è riconciliazione. Sono state messe al bando le appartenenze etniche. Quando si nomina quella o quell?altra etnia, lo si fa a bassa voce perché oggi bisogna parlare di ruandesi e non di hutu e tutsi. Nonostante ciò, però, la divisione etnica rimane, ed è forte, e il potere se ne avvantaggia.
Il governo ha messo in campo programmi per l?aiuto delle vittime del genocidio, per le vedove e per gli orfani. Alle vedove è stata data una casa, per gli orfani l?istruzione è gratuita fino all?università. Se da un lato questi interventi sono apprezzabili, dall?altro evidenziano come in Ruanda si stia andando verso un apartheid sottile, quasi invisibile, ma estremamente efficace.
Il Ruanda, comunque, ha subito forti trasformazioni. Kigali, la capitale, è passata in nove anni da 150mila abitanti a 800 mila. Nonostante il potere sia forte, il disastro economico è sotto gli occhi di tutti. La miseria dilaga, i mendicanti si moltiplicano, i ?maibobo?, bambini di strada, aumentano. Il costo della vita è elevato. Per curarsi di malaria occorrono almeno 7000 franchi ruandesi, lo stipendio medio è intorno ai 25 mila (circa 45 dollari), per i pochi che hanno un?occupazione.
Ma non è solo una questione economica è, soprattutto, una questione culturale. Nel 1994 il 90 per cento della popolazione era cristiana. Oggi le cose sono cambiate radicalmente, anche qui complice il genocidio. Con grande stupore sono state costruite numerose moschee. Se nove anni fa non c?era nemmeno un musulmano ora sono il 10 per cento. Molti cristiani si sono ?convertiti? alle sette americane. La ragione sempre la stessa: i cattolici hanno messo in atto il genocidio. Le chiese, teatro dei massacri, come quella di Ntarama e Nyamata, sono diventate memoriali. Oggi sono come nove anni fa. Sull?altare di Nyamata c?è ancora lo stesso lenzuolo bianco sporco di sangue. Le pareti non sono state ripulite. L?orrore è lì, vivo. E c?è anche chi ti racconta la storia di quei giorni, di quei ventimila morti, come se tutto fosse normale. Ma normale non è.

A caccia di terra
La terra, bene primario per gente che vive di agricoltura, scarseggia. La densità abitativa è elevatissima. E la terra, per alcuni, è la giustificazione dell?intervento ruandese in Congo. C?è chi si spinge più in là: la guerra potrebbe finire solo con la spartizione del Congo a beneficio del Ruanda e a scapito dei congolesi. Come dire che le condizioni di vita all?interno del Paese potrebbero migliorare solo con un po? di terra in più. Ma non è così.
Solo a Butare vivono 30 mila vedove e 13mila orfani. Medici senza frontiere lavora proprio con le vedove del genocidio con un progetto di salute mentale, di sostegno psicologico. Eppoi c?è il problema dell?Aids. L?80% delle donne violentate durante la guerra hanno contratto l?Aids. Ma non solo. Recentemente hanno liberato numerosi prigionieri. Molte donne hanno lasciato la loro casa per paura di essere uccise. Non solo. In Ruanda sono stati reintrodotti i tribunali tradizionali dei villaggi, i Gacaca, per giudicare i presunti responsabili del genocidio. I membri dei Gacaca sono eletti direttamente dagli abitanti del villaggio e, in genere, sono considerati persone integerrime che si avvalgono dei metodi tradizionali di giudizio. Lo scopo di questi tribunali è anche quello di favorire la riconciliazione tra vittime e carnefici. Anche se la paura di testimoniare resta forte, alcuni risultati si stanno raggiungendo. Sono sorti gruppi dove si incontrano vedove del genocidio e donne che hanno i mariti in carcere per quell?orribile delitto. Un passo, piccolo forse, verso la riconciliazione che, tuttavia, sembra ancora lontana.
Un ruolo importante lo potrebbe giocare la scuola. Il programma governativo prevede, infatti, la creazione di scuole primarie e secondarie in tutti i villaggi così da consentire la scolarizzazione della maggior parte dei bambini e dei giovani. A Tumba, il quartiere più povero della città di Butare, grazie all?intervento di Variopinto la scolarità ha raggiunto il 100%: 1200 bambini frequentano la scuola elementare. Da settembre aprirà anche una scuola materna. “Da un?indagine che abbiamo fatto”, ci racconta Paolo Sormani, responsabile di Variopinto, “si è evidenziato che il 20 % dei bambini non frequenta le scuole elementari perché deve curare i fratelli più piccoli. Per questa ragione abbiamo deciso di costruire la scuola materna”.

Cose che non si vedono
Solo la scuola può diventare il vero laboratorio per la costruzione di una nuova coscienza che faccia superare le divisioni etniche e costruisca il popolo ruandese. Nonostante ciò rimane una domanda inquietante: il Ruanda avrà un futuro senza guerra? La risposta ce l?ha data il vescovo di Butare, Philippe Rukamba: “Se seguo la mia fede dico di sì. Se guardo alla realtà, no. è possibile, ma richiede molta intelligenza nei nostri dirigenti e solidarietà tra i Paesi dell?area. Ma sono cose che ora non si vedono”.

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