Welfare

Ruanda: Tra memoria etnica e riconciliazione nazionale

testimonianza e riflessioni dal Ruanda di un giornalista italiano e padre di un figlio con origini rwandesi

di Joshua Massarenti

Kigali (Rwanda) ? Quando sono giunto oltre un mese fa in Rwanda, mai avrei immaginato paese così bello. Colline verdeggianti coperte di bananeti e campi di mais che colpiscono per la loro diligente ripartizione. Riuscielli dal blu dipinto serpeggianti che rendono il paesaggio ancor più quiete e lussuriante. In lontananza, si sentono canticchiare uccelli in preda a voli pindarici. Il tutto sotto lo sguardo imperturbabile di giovani pastori al passo nonchalant.
Quante volte ho sentito udire da muzungu* estasiati di fronte ad un quadro così idiallico: ?Ma qui è il paradiso terrestre!?.
Eppure, su queste stesse colline, centinaia di migliaia di esseri umani sono sprofondati nel 1994 in un bagno di sangue nel quale secondo le stime meno felici sarebbero state massacrate oltre un milione di persone. Da gionalista errante, lo sterminio pianificato e attuato dagli estremisti Hutu contro la minoranza Tutsi offre nei suoi aspetti più oscuri spunti di riflessione inquietanti. C?è da chiedersi, a titolo esempio, come sia stato possibile per un semplice contadino vivisezionare con un macete il corpo dei propri vicini di casa con i quali fino alla sera precedente si condivideva gioie e pene della vita quotidiana? Che tipo di odio covava in ragazzi non appena maggiorenni mentre afferravano neonati assimilati al pari dei loro genitori ?serpenti da schiacciare? per sbatterli contro un muro? Quale rancore poteva spingere una donna a fracassare il cranio di una bambina Tutsi? A che Santi si sono appellati i preti e le suore in preda alla furia omicida? Quali moventi hanno spinto capifamiglia Hutu ad uccidere i propri figli partoriti da una moglie Tutsi: le minacce di morte professate da amici o dirigenti determinati a ?far sparire gli scarafaggi dalla faccia della terra?? Un quadro familiare troppo compromente per continuare a convivere con la gente del quartiere? O ancora la convinzione feroce che ?ripulire il paese dalle aree umanamente infette? passa anche per una purificazione biologica all?interno del proprio gruppo familiare?
Da padre di un bambino con origini rwandesi, tali interrogativi assumono una dimensione angosciante. Addiritittura spaventosa se si pensa che, caso unico al mondo, carnefici e vittime si vedono costretti a tornare a vivere insieme sulle stesse colline e quartieri urbani.
La via prescelta dal nuovo regime all?indomani dell?eccidio per riemarginare ferite tutt?ora aperte ? una riconciliazione nazionale che bandisce ogni forma di discriminazione, a cominciare da quella etnica ? sembra una panacea dei mali fisici e morali che affligono una buona parte della società rwandese. Mai come nel periodo commemorativo appena trascorso è apparso così chiaro il principale dilemma che pone l?intero paese di fronte ad una sfida difficilmente superabile, per lo meno a breve e medio termine. Di fatti, come conciliare il dovere di memoria con la necessità di costruire un futuro improntato sull?unità nazionale?
Comemorare i morti significa de facto far riermegere tra i rwandesi questi sentimenti di appartenenza etnica che il regime di Kigali guidato dal presidente Paul Kagame si è promesso di combattere nel quotidiano. Sia sul piano simbolico (togliendo la menzione etnica sulle carte d?identità) che quello pratico (sancendo nei principii che la scalata sociale di ogni rwandese non si compie più in base all?appartenenza etnica). Ma non è trascorso un giorno, dal mio arrivo in Rwanda, in cui i sentimenti etnici e quelli nazionali non siano entrati in collisione tra i rwandesi che ho incontrato. La differenza che emerge è l?intensità con la quale questi stessi sentimenti si scontrano fra loro. Tra i membri della diaspora rwandese Tutsi sbarcata nel paese delle mille colline dal ?94 in poi, tale dilemma si fa meno violento. Al contrario dei sopravissuti per cui la riconciliazione con gli Hutu si propone difficile: umiliante ed offensiva per alcuni di loro, necessaria per altri. Dall?altra parte, il sentirsi Hutu rimane una prerogativa per chi in carcere o fuori dal paese nutre il desiderio tetro di finire ?il lavoro iniziato nel ?94?. Per altri, è una vergogna da reprimere a tutti i costi allineandosi con il diktat dell?attuale regime: ?Tutti uniti nel nome della riconciliazione nazionale!?. Per altri ancora ci si può sentire Hutu e marciare insieme ai Tutsi sul cammino quotidiano della pace e della riconciliazione a patto che i sentimenti etnici non predano il sopravvento nel campo politico.
Quali di queste categorie appena citate (ve ne sono in realtà molto di più) sia maggioritaria o minoritaria nella società rwandese è impossibile sancirlo. Risulta addirittura improponibile presentare queste categorie come omogenee. Tra la diaspora rwandese Tutsi, c?è chi ha perso un?intera famiglia, chi invece può ancora contare sulla presenza di tutti i suoi familiari. ?A ciascuno il suo genocidio? verrebbe da dire. Chi come Myriam Marerero, splendida quarantenne Tutsi con due figili a carico e un marito Hutu in esilio vuole ancora ?credere nella riconciliazione. E questo nonostante l?abbandono della comunità internazionale durante i massacri, le accuse mosse contro di me dai miei stessi familiari Tutsi per essermi sposata con un Hutu e l?opera di sterminio messa in pratica dalla famiglia di mio marito nel ?94?.
Agli antipodi di Myriam e dei suoi due ricoveri in ospedale psichiatrico, incontriamo Leopord Twagirayezu, 26 anni appena compiuti e un centinaio di Tutsi sulla coscienza. ?In realtà, non so nemmeno più quanti ne abbia massacrati?. La sua redenzione l?ha cercata attraverso un tentativo di suicidio nel gennaio 2003, quando al termine di sette anni passati nel carcere di Rilima ha incrociato lo sguardo dei sopravissuti di Nyamata ? il suo borgo di origine che contribuì a trasformare in un inferno nei mesi di aprile e maggio 1994. Nel prossimo mese di giugno, ci riproverà nel tribunale della Gacaca in cui ?chiederò perdono ai sopravissuti e denuncerò 225 persone per aver partecipato in un modo o in un altro al genocidio. Alcuni Hutu mi vorrebbero morto, altri hanno già provato a corrompermi per non denunciarli. Ma io ho deciso di andare avanti per la mia strada. E? il minimo che possa fare per aiutare i rwandesi a riconciliarsi?.
Una riconciliazione che passa quindi per la giustizia dovuta a tutti, sia ai carnefici che alle vittime. Per le generazioni future, la riconciliazione passa anche per l?insegnamento della storia del Rwanda. E c?è da rimare seriamente preoccupati sul fatto che sin dal ?94, nessun libro scolastico è stato mai realizzato, né distribuito nelle scuole primarie e secondarie del paese. Lea utorità competenti ci stanno lavorando sopra, ma accordare ?tutti? è difficile. Una data, un evento storico diventano oggetti di discussioni e polemiche infinite. La rivoluzione sociale del 1959 guidata da estremisti Hutu va ricordata come una liberazione delle masse Hutu da un potere coloniale dato chiave in mano negli anni ?30 dai belgi ad un pugno di nobili Tutsi (a scapito di molti Tutsi), oppure viceversa l?inizio dei massacri e delle persecuzioni ricorrenti inflitte ai Tutsi per oltre 30 anni e culminati nel tentativo di sterminarli tutti nel ?94. Entrambe le interpretazioni sono corrette, ma c?è chi sarà più propenso a privilegiare la liberazione degli Hutu e chi premerà per mettere in risalto l?oppressione dei Tutsi.
Segno che il concetto di unità nazionale non avrà vita facile con i rwandesi: sia per coloro che hanno vissuto per decenni nel segno della storia risentimento, sia per quelli che questa storia la dovranno imparare sui banchi di scuola.Hutu e tutsi che siano.

*Bianco in kinyarwanda

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