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Rosarno, il collega del sindacalista ucciso: «è colpa della politica»
Sul caso di Soumaila Socko, il ragazzo maliano ucciso a fucilate a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia interviene Aboubakar Soumahoro, membro del Coordinamento Lavoratori Agricoli USB, di cui il giovane faceva parte. «La tendopoli di San Ferdinando e le nostre condizioni lavorative sono il combinato disposto della Bossi-Fini e del decreto Minniti-Orlando»
La sera del 2 giugno scorso Soumaila Socko, un giovane migrante maliano di 29 anni, è stato freddato a colpi di fucile a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia. Insieme a lui altri due ragazzi sono stati feriti. Il fatto è accaduto in località Ex Fornace. Soumaila è stato soccorso dal 118 e trasportato nel reparto di neurochirurgia dell'ospedale di Reggio Calabria dove è deceduto. I tre migranti vivevano nell'area della tendopoli di San Ferdinando in cui soggiornano i braccianti impegnati nei campi nella piana di Gioia Tauro di cui Vita.it aveva recentemente proposto un reportage. Poco dopo i fatti la notizia che era rimbalzata su tutti i media era che il ragazzo fosse stato sorpreso a rubare delle lamiere all'interno di una proprietà privata. Col passare del tempo invece si è scoperto che Soumaila Socko non era un migrante qualsiasi ma un attivista sindacale dell'Usb (Unione sindacale di base). Un ragazzo da sempre in prima fila nelle lotte sindacali per difendere i diritti dei braccianti agricoli sfruttati nella Piana di Gioia Tauro e costretti a vivere in condizioni fatiscenti nella tendopoli di San Ferdinando (Rc). Una rivelazione che ha dato un significato diverso e inquietante del suo omicidio. Mentre dal nuovo Governo non arrivano commenti ufficiali sulla vicenda intorno a Gioia Tauro ci sono state alcune manifestazioni dei braccianti agricoli per chiedere giustizia. Ne abbiamo parlato con Aboubakar Soumahoro che è membro del Coordinamento Lavoratori Agricoli USB.
Chi era Soumaila Socko?
Un bracciante che da due anni era impegnato nella raccolta degli agrumi. Era papà di una bimba di 5 anni che sta in Mali con la mamma. Ad un certo punto si è reso conto che alcuni di noi, lui compreso, si ritrovavano con paghe da fame, anche da 50 euro lordi mensili, a fronte di altri che prendevano paghe più alte, retribuite ad orario e accompagnate da regalie, come pacchi di pasta e bottiglie olio. Lo ha scoperto attraverso noi del sindacato. Così ha deciso di darci una mano.
Come leggi quello che è accaduto?
Noi non lo sappiamo. Non c'erano rapporti di lavoro né di conoscenza tra lui e il killer. Non stava neanche rubando. Queste menzogne sono un palese tentativo di insabbiare la cosa. Lo chiediamo noi alle autorità che cosa è successo. È la Giustizia italiana che ci deve dare una risposta e dire la verità. In più c'è un clima attorno a tutta questa situazione alimentato, costruito, voluto. Non voglio dire che ci sia una relazione. Ma di certo non aiuta.
Come fate a tutelare i diritti di lavoratori che nella migliore delle ipotesi non hanno contratti e nella peggiore non hanno neanche documenti o si sono visti rifiutare lo status di rifugiato?
Partiamo prima da un presupposto: in realtà dovrebbero avere accesso a diritti che vengono negati da una normativa, la Bossi-Fini, che prevede questo legame tra il permesso di soggiorno e il lavoro. Questo obbliga il bracciante a dover accettare il lavoro, a qualunque condizione viene offerto. Perché il rifiuto comporta la perdita del permesso di soggiorno. È una norma schiavista che rende i lavoratori ricattabili e ghettizza socialmente e lavorativamente. A questa si aggiunge, per quanto riguarda i profughi il decreto Minniti-Orlando che li stritola dentro una macchina legislativa che produce masse di persone alle quali dovrebbe essere riconosciuta la protezione internazionale ma che invece vengono indicate come migranti economici e costrette a lavorare come in stato di schiavitù.
E voi come li aiutate?
Facendogli capire che da soli sono spacciati ma insieme possono fare massa critica e negozxiare le proprie condizioni di lavoro. Il ricatto non funziona se a rifiutare certe condizioni non è il singolo ma tutti.
Una parola molto in voga in questi giorni, legata ai migranti è pacchia. Che tipo di pacchia è la tendopoli di San Ferdinando?
Si trova in uno spiazzo tra i capannoni abbandonati di quella che doveva essere la zona di sviluppo del porto di Gioia Tauro. In inverno arriva ad ospitare tra le 2.500 e le 3mila persone. I tendoni blu installati dalla protezione civile quasi dieci anni fa sono stati rinforzati da pezzi di cartone o di compensato e da teloni di plastica. Con la pioggia, lo spiazzo si riempie di fango. Non c'è acqua corrente e i servizi igienici sono completamente inadeguati. Ai due estremi dello spiazzo stazionano due auto della polizia, giorno e notte. Per tutti qui è il posto peggiore dove siano mai stati. La nostra pacchia qui fa rima con inferno.
Come si può risolvere questa situazione?
Bisogna slegare il permesso di soggiorno al lavoro da una parte e dall'altra fare una sanatoria. Vorrei ricordare che l'ultima sanatoria la fece Maroni con il governo Berlusconi. Qui non si parla più di migranti ma di lavoratori.
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