Famiglia

Rosaria, un Oscar per caso

Donne in prima linea Chi è la giovane romana che ha conquistato il premio delle associazioni di volontariato internazionale

di Barbara Fabiani

Rosaria solleva le sopracciglia con un’espressione interrogativa: «Ancora non ho capito cosa avrei fatto di così eccezionale da meritare un Oscar», dice fissandomi con i suoi profondi occhi neri e terribilmente severi. Eppure, malgrado la sua perplessità, una ragione ci deve essere se quest’anno è stato assegnato a lei l’Oscar del Volontariato, il riconoscimento promosso dalla Focsiv che premia i volontari che si sono distinti nelle loro attività. Si chiama Rosaria Cortelessa, è romana, ha 28 anni. Castana, niente trucco e con uno stile nel vestire molto sobrio, non le piace parlare di sé e ha una forte personalità. Gli ultimi due anni e mezzo li ha trascorsi in Albania coordinando un progetto educativo per conto del Vis, la organizzazione non governativa legata alla rete delle missioni salesiane nel mondo. Il che significa che è passata da un’insurrezione popolare armata a una guerra sul confine con conseguente accoglienza da organizzare per i profughi kosovari, e nel mezzo un contesto sociale drammatico e senza regole, ai limiti della criminalità. E lei si chiede che cosa ci sia di speciale nella sua esperienza. A Tirana,quando caddero le piramidi Ad appena tre mesi dal suo arrivo in Albania ha dovuto affrontare la prima crisi, quando nell’aprile del ’97 lo scandalo delle piramidi finanziarie fu l’occasione che gettò nel caos quella nazione già dall’equilibrio precario. Rosaria fu tra i primi volontari nei Balcani a vivere l’angosciante esperienza dell’evacuazione. «Per la mia famiglia e per i miei amici era scontato che la cosa sarebbe finita così», ricorda. «Al contrario, io sentivo il dovere di mantenere l’impegno che avevo preso nei confronti di chi avevo incontrato in Albania». Appena due mesi dopo era di nuovo a Tirana. A farla tornare sono stati i legami personali stretti con i missionari e soprattutto con la gente del luogo che, nelle ore dell’evacuazione, la scongiuravano di fuggire. «Andatevene, mettevi in salvo», dicevano, «Noi non vi meritiamo». Quel grido sconsolato l’ha avuto nelle orecchie per tutto il tempo che è stata lontana, mentre seguiva le vicende dai telegiornali, e per lei si è trasformato in un richiamo a tornare. L’esperienza di Rosaria nel volontariato comincia quando era una ragazzina e andava a scuola in un istituto salesiano. «La mia rovina sono state le suore», dice scherzando. «Ci parlavano sempre delle missioni dove c’era gente che aveva bisogno di aiuto». Una solida educazione cristiana, forti valori di riferimento ma senza ossessioni: «Riconosco che per me fare volontariato è un modo per vivere la mia fede, forse la maniera che sento più coerente. I valori che ho appreso li devo trasformare in azioni», ammette, senza tirare in ballo obiettivi salvifici nei confronti del mondo. Da adolescente ha partecipato alle attività parrocchiali, poi ha fatto volontariato con i senza fissa dimora e in un ospizio. Dopo la laurea in sociologia ha trascorso un anno a Cassino dove ha tirato su dal nulla un centro di aggregazione giovanile. Infine l’incontro-scontro con l’Albania. Quando a giugno del ’97 Rosaria rientrò a Tirana per riprendere il suo posto di responsabile della formazione professionale e di coordinatrice delle attività di animazione sociale presso il Centro don Bosco, trovò la città praticamente razziata. Temette che tutto il lavoro fatto nel quartiere di Breglumasi fosse andato perso, ma si sbagliava: gli abitanti avevano difeso dal saccheggio il centro di aggregazione giovanile, l’asilo e le altre strutture che i volontari e i missionari salesiani avevano costruito insieme a loro negli anni precedenti. In quell’occasione Rosaria capì che malgrado tutto era sopravvissuto qualcosa del senso della comunità e che lei e il suo lavoro sarebbero stati protetti. Un proiettile nel parabrezza Più di una volta, racconta, i ragazzi del quartiere le hanno fatto da scorta per riaccompagnarla a casa e hanno sorvegliato la sua attrezzatura, compresa l’automobile. La stessa auto che compare in una delle foto del suo album dei ricordi, con un foro di proiettile al centro del parabrezza, sparatole contro una sera e che fortunatamente l’ha mancata. Secondo Rosaria questo sarebbe un piccolo particolare della sua vicenda personale da omettere. Detesta l’idea di passare da “reduce dei Balcani”, soprattutto non vuole che si dia una “cattiva impressione” dell’Albania. Strani personaggi i volontari: partono apposta per portare aiuto in luoghi difficili e poi, al loro rientro, vorrebbero che se ne parlasse come di situazioni assolutamente normali; allora non si capisce che ci sarebbero andati a fare… «È che sul posto ti fai tanti amici. Gente per bene che si impegna seriamente a costruire una società migliore. Quando torni vuoi che si conosca soprattutto questo. A nessuno piace che si parli male dei propri amici». I suoi amici sono gli studenti che hanno seguito i suoi corsi di formazione, i bambini che ha fatto giocare e crescere con più serenità , le donne che ha saputo aggregare malgrado i rigidi precetti familiari patriarcali; suoi cari e speciali amici sono anche i ragazzi e le ragazze del centro giovanile che hanno dato, con sempre maggior convinzione, segnali di consapevolezza e di emancipazione. Amici, infine, sono stati anche i tantissimi profughi kosovari accolti dalle famiglie albanesi, adeguatamente aiutate e sostenute, e che insieme a lei hanno organizzato, nella precarietà dell’esilio, una scuola per i piccoli rifugiati. Non mi piacciono i volontari vagabondi Ora Rosaria è tornata. Continua a dire che è “appena rientrata” sebbene siano passati quattro mesi da quel giorno di luglio, sintomo che vive in quella dimensione dilatata del tempo tipica di chi è ancora a metà tra due mondi. Dice di aver bisogno di fermarsi, di recuperare quel senso di stabilità che le è stata trasmessa dalla sua famiglia. Non le piacciono i volontari “vagabondi”, sempre in giro senza riferimenti certi. Nel suo caso, sostiene, il volontariato è un’esperienza che le è servita ad arricchire la propria vita che comunque resta in Italia, accanto ai propri cari. Eppure, malgrado queste affermazioni, si dice pronta a partire, se ci fosse ancora bisogno di lei. L’altra faccia dei volontari È alle donne, quelle del Sud e del Nord del mondo, che la Focsiv dedica la giornata mondiale del volontariato indetta dalle Nazioni Unite il 4 dicembre e celebrata dalla Federazione delle ong cristiane con un grande evento all’Auditorium del Massimo a Roma. «Perché sono donne il 43% dei nostri volontari in missione nei Paesi in via di sviluppo», spiega la Federazione, «e anche la maggior parte dei beneficiari dei nostri programmi che molto spesso si trasformano in veri e propri partner durante i progetti». Le due facce del volontariato, insomma. Che la Focsiv racconta nella mostra “Donne del Sud del mondo” allestita nel foyer dell’Auditorium e, soprattutto, con la consegna dell’Oscar del Volontariato Internazionale a Rosaria Cortellessa da parte della scrittrice cilena Carmen Yànez Sepúlveda. L’Oscar, un targa con cui la Focsiv da cinque anni premia persone e associazioni particolarmente distintisi in servizio nei Paesi del Sud del Mondo, è stato precedentemente assegnato alla memoria di chi ha perso la vita in servizio (1994), a Noella Castiglioni che facendo volontariato durante la guerra africana ha perso l’intera famiglia e oggi è costretta su una sedia a rotelle (1995), alle ong che sono rimaste in Burundi durante il genocidio (1996), a due organizzazioni non profit peruviane e africane (1997) e, l’anno scorso, ad alcuni volontari che tornati da un progetto nel Sud del mondo hanno aperto una casa famiglia per minori e persone disagiate nel Nord Italia. Per ulteriori informazioni sulla serata: Focsiv, tel: 06.6877867 Internet:www.focsiv.it


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