Famiglia
Rosa shocking, tutti i numeri della violenza sulle donne
Il rapporto dell’associazione We Word parla di 6 milioni e 788mila le donne che hanno subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Ma solo l’11% ha denunciato gli abusi
Cresce l’allarme sociale sulla violenza contro le donne, ma si fa fatica a debellare alcuni stereotipi classici dei modelli di pensiero sessisti che spesso ne sono il brodo di cultura. Anzi, ci sono anche risultati che non t’aspetti.
Sono 6 milioni e 788mila le donne che hanno subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Ma di queste denuncia solo l’11 per cento gli abusi subiti. Ed è anche e soprattutto il frutto di un fenomeno culturale negativo.
Lo ha accertato il sondaggio che ha dato vita al secondo Rapporto “Rosa shocking” sulla violenza e gli stereotipi di genere sulle donne, curato dall’Ipsos per conto dell’associazione WeWorld, presentato oggi a Roma: “Violenza e stereotipi di genere: generazioni a confronto e prevenzione.” «Quello che accade ad una coppia non deve interessare ad altri», afferma con sorpresa ancora il 22 per cento degli intervistati (erano il 19 l’anno scorso), ma i giovani tra i 18 e i 29 anni (ancora troppi) calano dal 27 al 25% (mentre crescono quelli delle fasce più mature). Più grave, però, è che per un giovane su tre gli episodi di violenza «vanno affrontati all’interno delle mura domestiche», più delle altre fasce di età più mature; segno – forse ?- che il riflusso nel privato di questi tempi sta alzando mura solide e inaspettate. Intorno ad un concetto sbagliato di famiglia che protegge (forse) dai mali del mondo, ma non sempre da quelli che in essa crescono.
Senza parlare poi dei giovani che pensano che «Se un uomo viene tradito è normale che si arrabbi al punto che diventi violento» (19% contro la media del 13); che «La violenza domestica è frutto del fatto che le donne a volte sono esasperanti», (16 tra i 18-29, invece 11 la media dell’età più alta); che «per evitare di subire violenza le donne non dovrebbero indossare abiti provocanti» (15 risposte in accordo proprio tra i giovanissimi che proprio non ci si aspetterebbe tra i più “bacchettoni”, “solo” l’11 i più maturi). Segno, forse soprattutto maschile, di una fragilità nell’accettare l’alterità in tutte le sue sfaccettature.
Dati che indicano come «dobbiamo concentrare il lavoro di sensibilizzazione e prevenzione verso le nuove generazioni», afferma Marco Chiesara presidente di WeWorld, «solo così avremo l’opportunità di scardinare stereotipi e pregiudizi su cui si fonda la visione sessista della donna che alimenta il fenomeno della violenza contro le donne”. Per rivederci, magari l’anno prossimo, per commentare i dati di un terzo rapporto che presenti risultati diversi (e più positivi) di quelli sintetizzati oggi. Ossia: dalle risposte fornite a tutti i 12 atteggiamenti presentati, sono stati creati 3 sottogruppi, 45% “dalla parte delle donne senza se e senza ma”; 35% “fra moglie e marito non mettere dito”; 20% “il maschio incolpevole”. Non buoni, vero?
Così come negativo è il calo dell’investimento in prevenzione culturale: dal 2013 la campagna mediatica ha impegnato 16,1 milioni (il picco più alto mai registrato) per passare ai 14,4 del 2014.
Scarsa è la voce maschile, segnala inoltre l’associazione, soprattutto nei giorni del 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, e l’8 marzo; timidi segnali e poi il silenzio. Tant’è che WeWorld ha fatto ricorso questa volta a uno stimato cantautore, Alex Britti, che con un bel video clip e una nuova canzone, i cui proventi verranno destinati alle attività dell’associazione, si è fatto testimonial della campagna “La voce delle donne”.
Non sono solo informazione ed educazione, infatti, le attività di WeWorld, che da oltre 15 anni si occupa dei diritti dei bambini e delle donne più vulnerabili in Italia e nel Sud del Mondo: dal 2012 è presente all’interno del Pronto soccorso di 3 ospedali (con sportelli aperti H24 per offrire un supporto psicologico e cure mediche) e da oggi anche nei quartieri più problematici di alcune città italiane (tra le quali Napoli e Palermo) con 4 nuovi centri di accoglienza. «Qui lavoriamo – scrivono all’associazione – con le donne per fornire loro gli strumenti necessari per diventare più autonome e sicure, per poter chieder aiuto, le assistiamo e le sosteniamo nel lungo percorso verso l’autodeterminazione».
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