Volontariato

Rosa coraggio

Sorpresa: nelle più grandi ong italiane la maggioranza dei cooperanti sono donne. Con punte dell’80 per cento (di Emanuela Citterio e Sara De Carli).

di Emanuela Citterio

Una redazione gemella, e neanche lo sapevamo. La redazione di Hayat, «vita» in arabo, sta ad Algeri ed è guidata da Umberta Fabris. Lei ha 40 anni, è la responsabile dei progetti della Caritas in Algeria, e tra le tante cose da fare riesce a seguire anche questa rivista per donne fatta da donne. È una delle tante scoperte del nostro viaggio-inchiesta fra le donne impegnate nella cooperazione internazionale. Quelle che rischiano la vita in contesti di guerra o di miseria assoluta, e quelle che tengono le fila dei progetti dalla scrivania. Quella più eclatante, di scoperta, è che la cooperazione italiana è cambiata. A dirlo sono i dati raccolti in redazione dopo un sondaggio capillare fra le ong italiane. Gli organismi non governativi più grandi, quelli con più di 50 cooperanti all?estero impegnati in progetti di sviluppo, sono in prevalenza composti da donne. Ma partire è una scommessa La milanese Coopi, per esempio, conta 70 donne su 120 persone all?estero. Avsi supera di poco la parità, con il 54% di cooperanti donne. Prevale il rosa anche fra organizzazioni di media grandezza come Vis, Aibi, Terre des hommes, Aifo. Fra le ong maggiori fa eccezione il Cesvi, con una netta inferiorità (35%) di cooperanti donne all?estero. I numeri salgono decisamente se si considera l?organico che resta in sede: 82% ad ActionAid, dove sono donne 41 dipendenti su 50; 72% per Amref Italia; 65% per Gvc e 64% a Save The Children Italia, 57% al Vis. Segno che le donne nella cooperazione vogliono lavorarci, ma che partire resta ancora una scommessa che non tutte possono permettersi. E i motivi sono più che validi. «La difficoltà più seria nella vita della cooperante è costruire una vita affettiva stabile», confessa Monica Barbarotto, che dopo tre anni in Moldova oggi è responsabile dell?area Est Europa per AiBi. «Fare cooperazione non è solo una professione, è una scelta di vita. O lui fa la tua stessa scelta, o è impossibile». Monica in Moldova ha lasciato un compagno, Alexandru, anche lui operatore di AiBi. Qualcun?altra invece riesce a partire in coppia, come Sara Carcaterra, 30 anni, in Etiopia per Caritas insieme al marito. Per tutte queste donne, che per la cooperazione hanno maturato una vera passione e non la considerano un mestiere a tempo, il secondo ostacolo è rappresentato dalla maternità. «Si dà per scontato che abbiamo delle priorità tra cui non rientra quella di avere un figlio», si lamenta un po? arrabbiata Carla Cappai, 43 anni, che tra pochi giorni sarà mamma per la seconda volta. Carla è coordinatrice del Cesvi in Bosnia, è rientrata in Italia da un mese e conta di tornare in Bosnia a gennaio con la sua bambina: «Ci sono Paesi dove si possono tranquillamente far crescere i figli. Certo, in Somalia nel 1991 non l?avrei fatto». Fatto sta che la legge 49/1987 (quella che disciplina la cooperazione allo sviluppo nel nostro Paese) e il contratto da cooperante del ministero degli Esteri non contemplano la maternità. Una maternità ?per finta? Le cooperanti che restano incinte durante il contratto a tempo determinato (nel settore esistono solo questi, il più lungo dura 23 mesi), per i cinque mesi di astensione obbligatoria a cavallo del parto invece di passare nei registri dell?Inps, continuano a ricevere stipendio e contributi dal ministero. Esattamente come se fossero operative e in servizio, e non in maternità. Col risultato che nel progetto si crea un buco e che loro si sentono poco tutelate. «Il volontariato internazionale si è femminilizzato di recente», afferma Antonio Raimondi, presidente del Vis, facendo risalire il trend all?inizio degli anni 90. Raimondi fa parte anche del comitato scientifico del Master in cooperazione internazionale di Pavia, dove il 70% degli studenti sono ragazze, e sottolinea che «quasi il 70 % dei nostri espatriati sono donne. Sul campo bisogna però distinguere», avvisa, «fra chi ha il contratto da volontario internazionale e chi quello da cooperante. Questi ultimi, che sono ?i tecnici? della cooperazione, sono in prevalenza uomini». Dal ministero degli Esteri arriva la conferma: 64%. Ma il panorama di chi espatria per progetti di sviluppo è molto più ampio e variegato. «I curriculum che ci arrivano sono soprattutto di donne», spiega Emilia Romano, responsabile marketing di Save The Children, «ma poi le posizioni di responsabilità sono quasi sempre occupate da uomini». Manlia Nanussi, invece, responsabile dell?area Balcani per AiBi, sostiene che «per la crescita professionale della donna la cooperazione è un caso sui generis: è un ambiente altamente meritocratico, e non ho mai sentito di nessuna difficoltà a occupare posizioni di rilievo». Anche in Paesi pericolosi Sta di fatto che Save The Children è una delle poche ong ad avere una presidente donna: Maurizia Iachino Leto di Priolo. Le altre sono Maria Colomba Gatti di Acra, Patrizia Santillo di Gvc, Daniela Colombo di Aidos e Soana Tortora di Ipsia. Ma anche dove c?è il potere reale, cioè nelle direzioni operative e tra i responsabili di area, i desk officer e i capi di settore, di donne ce ne sono parecchie: 7 dirigenti su 10 in Acra e 4 su 6 a Terre des hommes Italia, 4 responsabili di area su 7 in Cesvi, 60% dei desk officer a Intersos. Ma solo 1 donna su 7 è nella dirigenza di Aifo e 1 su 6 in Caritas. L?ong più ?rosa? resta quella delle Acli, Ipsia: presidente e vicepresidente sono donne, così come una dei due responsabili di area. «Ci siamo chieste come mai, alla fine delle nostre selezioni, spesso la scelta cada su una donna», dice la vicepresidente, Paola Villa. «Forse perché abbiamo costruito all?interno di Ipsia una cultura femminile e le donne riescono meglio a inserirsi». Ma cosa succede sul campo, ovvero nei Paesi dove le ong sono presenti con i progetti di sviluppo? Il fatto che il cooperante sia uomo o donna non è elemento di valutazione per Avsi, Aspem, Mani Tese. «Abbiamo responsabili di progetto donne anche in Paesi pericolosi, come la Nigeria o il Nord Uganda», dice Elisabetta Ponzoni di Avsi. «Scegliamo un cooperante in base alla sua professionalità, al suo curriculum e alle sue esperienze. Punto». Le Acli rincarano la dose. «Ci sono contesti in cui una donna ha la possibilità di accedere sia al mondo maschile che a quello femminile, mentre all?uomo quello femminile è escluso», afferma Paola Villa. «Per intenderci: una donna occidentale può partecipare a riunioni di uomini, gestire progetti, guidare, amministrare finanziamenti. Ma nello stesso tempo è ammessa a riunioni di donne e può parlare singolarmente con le donne, creando rapporti privilegiati. Un uomo invece no». Quando fa la differenza Ci sono poi casi in cui una cooperante donna fa la differenza, in positivo e in negativo, sulla riuscita di un progetto. A evidenziarlo sono le ong che lavorano nei Paesi arabi. «In Palestina ci sono funzionari non abituati a trattare con responsabili donne», dice Valeria Fabbroni, cooperante di Coopi, «e gestire un progetto diventa difficile, alcuni si rifiutano persino di stringerti la mano». Proprio in questi contesti, viceversa, spesso essere donna può rappresentare un vantaggio. La pensa così Annalisa Bortoluzzi, un passato da cooperante in Somalia e in Corea del Nord, oggi mamma e responsabile progetti per Acra: «A volte le ong si piegano alla tradizione maschilista dei Paesi musulmani, e ritengono sconsigliabile far partire una donna», spiega. «In realtà in questi Paesi, superata la diffidenza iniziale, alla donna è riservato un rispetto assoluto, quasi sacrale. E le porte si aprono molto più di quanto succeda in Italia». Della stessa opinione è Dina Taddia, responsabile Medio Oriente per Gvc: «In Afghanistan abbiamo progetti che vanno avanti solo perché siamo presenti con una donna: un orfanotrofio per bambine, un progetto di sostegno alle vedove, una scuola femminile a Kabul. Una volta un finanziatore uomo ha insistito per visitare la scuola: la mattina dopo i vetri delle finestre erano tutti rotti a sassate». Per gli stessi motivi Intersos ha inviato donne in Sudan e in Pakistan: nelle situazioni di emergenza donne e bambini sono i primi destinatari dei progetti, ed è naturale che a lavorare con le donne sia una donna.

Emanuela Citterio Sara De Carli


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