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Rokia Traoré: “La cultura ci salverà dagli estremismi”

E’ una delle artiste africane più gettonate della musica internazionale. Alla guida della Fondation Passerelle, Rokia Traoré sfrutta il suo status di star per promuovere il settore culturale nel suo paese di origine, il Mali, colpito ieri da un ennesimo attacco terroristico e in preda ad una profonda instabilità politica. Di passaggio a Bruxelles, Traoré si dice convinta che sarà la cultura a salvare i maliani dagli estremismi. “Ma bisogna aiutarci, puntando sulla formazione e gli spazi culturali pubblici”.

di Joshua Massarenti

E’ una delle star più richieste dai festival africani ed europei. Originaria del Mali, Rokia Traore ha saputo conquistare il pubblico con un stile artistico che mescola la musica maliana e quella occidentale. Da Billy Holyday alle famiglie griots dei Kouyaté, passando per Ali Farka Toure e Damon Albarn (Blur), le sue influenze sono lo specchio di un repertorio musicale tra i più originali della musica contemporanea africana.

I successi accumulati durante la sua carriera musiciale – iniziata nel 1998 con l’uscita del suo primo album “Moneissa” – le hanno permesso di girare il mondo, eppure Rokia Traoré è rimasta sempre attaccatissima alla sua terra di origine: il Mali. Dal 2012, la sicurezza del paese africano è minacciata da gruppi djihadisti che ieri hanno perpetrato un nuovo attacco nei dintorni di Bamako, la capitale, facendo due vittime in un albergo frequentato dalla borghesia maliana e degli occidentali. Per contrastare l’espansione del radicalismo islamico in un territorio noto per promuovere un Islam aperto e tollerante, “la cultura è uno strumento di sviluppo vitale per salvare il Mali dagli estremismi”, sostiene la cantante maliana pluripremiata, di passaggio a Bruxelles per partecipare a un dibattito co-organizzato dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (AICS) durante l’ultima edizione delle Giornate europee dello sviluppo (EDD17).

Nota per i suoi impegni culturali e sociali, Rokia Traoré crea nel 2009 la Fondation Passerelle per sostenere i giovani artisti in Mali, dove nonostante lo stato di emergenza proclamato dal governo maliano nel novembre 2015 ha lanciato lo scorso anno la prima edizione del Festival di Jazz dell’Espace culturel Passerelle. Ma il suo attivismo filantropico supera le frontiere maliane per abbracciare la causa dei migranti africani che rischiano la loro vita per andare in Europa. A loro, ha dedicato una canzone e un video clip – Be Aware – nell’ambito della campagna di sensibilizzazione “Aware Migrants” promossa dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) e il ministero italiano dell’Interno.

Quando si clicca la parola Mali su google.fr, bisogna recarsi sulla sesta pagina per poter trovare un link che fa riferimento alla cultura, un settore che sembra inghiottito dal terrorismo e dall’insicurezza che attraversano il paese da ormai cinque anni. Lei è venuta a Bruxelles per sollecitare l’Europa a muoversi in favore della cultura africana. Con quali obiettivi?

Mettiamo un attimo da parte il caso del Mali. Assieme agli europei è necessario trovare delle soluzioni adeguate ai problemi che attraversa il mondo culturale africano, senza dover trasferire in toto il modello europeo sul nostro continente. Quelli più urgenti riguardano la formazione su attività di base nel settore della cultura e del mondo delle arti in generale, e il sostegno a spazi culturali pubblici. Prendiamo l’esempio del modo con cui una sala di concerto o di teatro va seguita. Cosa deve fare o non fare una maschera? In che modo si gestice il flusso delle entrate e delle uscite? Insomma, attività semplici e concrete, ma che fanno la differenza quando si cerca di promuovere la cultura non solo in Africa, ma in tutto il mondo. Naturalmente, un conto è gestire una sala a Bamako, un altro è farlo a Roma, ma il modo con cui si apre e chiude una porta è sempre la stessa, così come curare le luci o il suono. E’ triste ammetterlo, ma dopo tanti decenni di cooperazione, ci sono mestieri e lavori per i quali mancano le competenze più semplici. Si è investito tanto nella sicurezza alimentare, la salute o l’educazione, ma molto poco nella cultura.

Bisogna investire nella formazione su attività di base nel settore della cultura e del mondo delle arti in generale, e la creazione di spazi culturali pubblici.

Quel poco a cosa è servito?

Spesso per i festival, gli eventi culturali, mentre troppo poco è stato fatto per le infrastrutture e le risorse umane. Se organizzo un festival musicale, l’Europa mi darà dei fondi per facilitare i trasporti o il cachet degli artisti, ma sul modo con cui un festival va curato, nulla. Oggi, grazie ai fondi europei, esistono parecchi festival culturali che riscuotono anche un grande successo sul continente africano, ma si tratta di aiuti estemporanei che fanno emergere delle oasi qua e là in mezzo a un vasto deserto. In Mali ci sono due eventi importanti – finanziati in parte con i fondi europei – che sono rimasti in piedi nonostante l’insicurezza: i festival di Segou e di Selingue, con un pubblico esclusivamente maliano che va coltivato in un paese dove il turismo si è ridotto all’osso. E va bene, ma poi si scopre la mancanza di luoghi culturali frequentati quotidianamente dai cittadini maliani. In paesi come il nostro, minacciati dall’estremismo e dalle disuguaglianze sociali, gli spazi religiosi hanno preso il sopravvento perché ormai polifunzionali. Non ho nulla contro questo genere di luoghi, anzi, sono spazi vitali per promuovere movimenti religiosi aperti e tolleranti, ma quelli pubblici stanno scomparendo.

Un conto è gestire una sala a Bamako, un altro è farlo a Roma, ma il modo con cui si apre e chiude una porta è sempre la stessa, così come curare le luci o il suono. Ci sono mestieri e lavori come le maschere per i quali mancano le competenze più semplici.

Perché questi spazi sono così importanti?

Posso capire che in un’area colpita dalla povertà, la cultura non sia considerata un settore prioritario. Ma è un giudizio che non condivido. Nei quartieri di Bamako o di Ségou, i piccoli spazi culturali hanno anche una funzione sociale estremamente importante. Ci si ritrova per discutere dei problemi economici e familiari quotidiani, cercando delle soluzioni attraverso il dialogo e il confronto. Purtroppo sono ignorati.

Di chi la colpa?

I primi responsabili sono i nostri dirigenti, da loro mi aspetto poco o nulla. Gli operatori culturali devono trovare sostegno presso le istituzioni e le organizzazioni internazionali. E l’aiuto passa per un accesso migliore ai fondi come quelli europei.

E’ un vecchio problema mai risolto…

La frustrazione è immensa. Oggi sono in pochi a poter accedere ai fondi dell’UE. E’ un problema addirittura per i teatri e le organizzazoni culturali europee. Le procedure delle gare d’appalto sono diventate talmente complicate che i teatri preferiscono appoggiarsi ad agenzie specializzate per riempire i formulari. Secondo lei che spazi di manovra ci sono per un’associazione di piccola e media dimensione africana? E’ una missione quasi impossibile. Tra le difficoltà di reclutare risorse umane appropriate per preparare una gara d’appalto, la massa di documenti da presentare e le connessioni Internet spesso molto scarse, la stragrande maggioranza delle associazioni culturali africane sono tagliate fuori. Eppure ce ne sono di estremamente serie ed efficienti sul nostro continente, ma non sono armate per affrontare la burocrazia europea.

Nei quartieri di Bamako o di Ségou, i piccoli spazi culturali hanno anche una funzione sociale estremamente importante. Ci si ritrova per discutere dei problemi economici e familiari quotidiani.

Che soluzioni propone?

L’Unione Europea dovrebbe creare delle cellule ad hoc nelle loro delegazioni in Africa che possano accompagnare le nostre associazione nelle procedure amministrative. So che ci sono delle riunioni informative, ma non basta. Poi ci sono i controlli, che andrebbero fatti su ogni anno su progetti pluriennali. Per ora una fondazione come la mia si aggrappa a dei consorzi in cui una società leader svolge tutte le attività aministrative, chiedendoci dei documenti che a volte non riusciamo a trasmettere. E mi creda, non è una questione di volontà.

Ha parlato dell’assenza di spazi culturali pubblici a Bamako. C’è una città o un paese africano da cui invece ispirarsi?

Malgrado i suoi difetti, il modello nigeriano è sicuramente tra i più interessanti. La mobilitazione delle banche e del settore privato a favore della cultura ha permesso l’affermazione di una vera e propria industria culturale che oggi fa gola a molti paesi africani. Ci sono altri casi interessanti in Kenya e Senegal, ma il panorama generale rimane molto povero. In Europa gli operatori culturali chiedono maggiori sforzi, in Africa siamo costretti a chiedere l’essenziale.

Foto di copertina: Rokia Traoré durante un suo concerto a Milano nel 2007. Diritti: Flickr/Riccardof.

Malgrado i suoi difetti, il modello nigeriano è sicuramente tra i più interessanti. La mobilitazione delle banche e del settore privato a favore della cultura ha permesso l’affermazione di una vera e propria industria culturale che oggi fa gola a molti paesi africani.

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