Cultura
«Ritorno all’uomo». Imparare da Cesare Pavese a settant’anni dalla sua morte
Nell'anniversario della scomparsa dello scrittore, il Presidente Mattarella ha ricordato l'importanza del suo impegno culturale e editoriale in un periodo critico per il nostro Paese. Un richiamo non causale da parte del Capo dello Stato che rimarca come l'impegno intellettuale di Pavese fu sempre declinato al reale e al servizio della comunità
di Marco Dotti
«Scrittore, poeta, critico letterario, traduttore raffinato di autori americani e inglesi, Pavese è stato uno degli intellettuali italiani più significativi del Novecento. (…) Riuscì a comporre un patrimonio di cultura, di pensiero, di letteratura, da cui il Paese ha tratto energia fin dagli anni della conquista della libertà e della democrazia e che poi ha contribuito alla formazione di tanti giovani».
Nell'anniversario della scomparsa dello scrittore, il Presidente Mattarella ha ricordato l'importanza del suo impegno culturale e editoriale in un periodo critico per il nostro Paese. Un richiamo non causale da part del Capo dello Stato che rimarca come l'impegno intellettuale di Cesare Pavese fu sempre declinato al reale e al servizio della comunità
Le parole e l'uomo
Andrebbero rimeditate le parole di Natalia Ginzburg che, nel suo Lessico famigliare, accennava a quel misto di dedizione assoluta e di crudele disincanto a cui si era votato Cesare Pavese, nel momento stesso in cui si apprestava a licenziare la traduzione di Moby Dick.
Erano i primi anni Trenta, e agli amici che cercavano di coinvolgerlo in una nuova impresa editoriale, Pavese era solito rispondere: «non ho bisogno di uno stipendio. Non devo mantenere nessuno. Per me, mi basta un piatto di minestra». Guadagnava poco grazie alle supplenze nei licei torinesi, ma quel poco, evidentemente, sembrava bastargli. Gli bastavano le traduzioni dall’inglese, di Riso nero di Sherwood Anderson o di Moby Dick, usciti entrambi nel 1932 per i tipi di un coraggioso editore torinese, lo stampatore Carlo Frassinelli.
Quanto a Moby Dick, Pavese ripeteva che se l’aveva tradotto, era stato «per suo puro piacere» e per mettersi al passo coi tempi. L’avevano pagato, certo, «ma l’avrebbe fatto anche per niente, anzi avrebbe pagato lui stesso per poterlo tradurre». Già scriveva saggi, racconti e poesie, e quelle sue poesie, commenta la Ginzburg, avevano un ritmo lungo, quasi strascicato e pigro, che si perdeva in «una specie di amara cantilena».
Il suo mondo era l’America sognata, ma prima di tutto era Torino, il Po, l’«inframondo» delle colline e delle langhe, ma anche il lavoro in fabbrica, il «biennio rosso» e gli scontri con la polizia, e poi la nebbia e le «osterie di barriera».
Parlare. Le parole sono il nostro mestiere. Lo diciamo senza ombra di timidezza o di ironia. Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro. Sentiamo tutti di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l’uomo le creava per servirsene. E ci accade che proprio per questo, perché servono all’uomo, le nuove parole ci commuovano e ci afferrino come nessuna delle voci più pompose del mondo che muore, come una preghiera o un bollettino di guerra. Il nostro compito è difficile ma vivo. È anche il solo che abbia un senso e speranza. Sono uomini quelli che attendono le nostre parole, poveri uomini come noialtri quando scordiamo che la vita è comunione. Ci ascolteranno con durezza e con fiducia, pronti a incarnare le parole che diremo. Deluderli sarebbe tradirli, sarebbe tradire anche il nostro passato
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