Cultura

Rischio primavera

di Maria Laura Conte

Marzo sa essere alquanto faticoso. Leone e agnello. La faccia fredda della primavera.

Non esiste una descrizione dei giorni che ci scivolano ora tra le mani più adeguata di questa di Amy Smith, la scrittrice dei romanzi delle stagioni. Questo marzo sembra proprio diviso, per metà leone, energico e potente, e per metà agnello, mite e spaventato, tagliato in due da una parola: rischio. Il rischio di non farcela più a resistere, di finire triturati dalla crisi sanitaria-politica-economica, di ammalarsi, di perdere un lavoro o un affetto, di sbattere di nuovo contro un muro di incertezze.

Rischio, come tutte le espressioni dal capitale semantico sterminato, ha un’etimologia incerta: si sono depositati su di lei strati di vicende umane disparate, non facili da distinguere, che ci hanno lasciato in eredità questa parola densa.

Potrebbe discendere dal greco bizantino rhizikò, che significa sorte, destino; oppure dall’arabo rizq, che evoca il saldo dovuto al soldato inviato in imprese ardite; o ancora dal verbo latino classico resecare, tagliare, escludere. Nella sua declinazione marinaresca resecare indica quel modo di tagliare le onde prima che montino, con occhio e perizia per evitare di capovolgersi. Orazio ricorre a questo verbo in un suo verso esortativo: dato che la vita è breve (spatio brevi), suggerisce il poeta, spem longam reseces, taglia una speranza lunga. Verso che, con licenza poetica adattata al nostro secolo, tradurrei così: rischiala, osala, una speranza eterna.

spatio brevi spem longam reseces/ visto che il tempo è breve, rischia una speranza lunga

Orazio


Eccolo il rischio: corre come un equilibrista sul filo che separa la cautela da un possibile danno, tra la prudenza di chi sta al riparo e la spinta di chi opta per uscire allo scoperto, pur calcolando quanto potrebbe farsi male. Tra la resa al caso più cieco e la pervicacia di volontà.

Benché la sua natura sia questa combinazione di sorte, destino, volontà, calcolo e saldo dovuto, ci si prova a misurarlo. Si cerca di studiarlo per prevenirlo o arginarlo.

Le organizzazioni più complesse oggi non possono reggere la concorrenza, quasi neppure entrare in partita, se non hanno provveduto ad attrezzarsi di un risk assessment, cioè di un’analisi delle possibili minacce, di come potranno verificarsi, dei limiti da porsi e dei metodi da pianificare per prevenirle. Ma se le imprese riescono a incasellare vaste gamme di rischi nelle celle di un excell, per le persone non è così immediato domarli.

Ci nasciamo dentro. Dal primo vagito, o forse anche prima, è parte della nostra essenza, è esperienza umana allo stato puro. Forse ancor di più, è una quota vocazionale (gli inglesi direbbero vocational, professionale), nel senso che se la vita si srotola come una risposta continua che siamo “costretti” a dare, istante dopo istante, a quello che la realtà pone di fronte – che siano primavere o inverni -, il rischio si colloca proprio là, ad ogni domanda.

Esigente, stare al rischio chiede capacità di scelta tra le alternative in campo, perché la via di fuga non è sempre disponibile. Chiede una ragione elastica, capace di allargarsi a considerare tutti gli elementi, dai più macroscopici fino a quelli impliciti, in apparenza più insignificanti che però di schianto possono diventare decisivi. E poi chiede una buona compagnia, di quella con una tempra in grado di tenerci vigilanti e non lasciarci andare alla deriva della solitudine.

Ecco, noi siamo il risultato dei rischi che decidiamo di correre. Il manufatto artistico di quanto la vita che preme continua a produrre in noi.

E quando quella vince, arriva marzo, per tornare al principio. Un mese che porta il nome del Dio della guerra, perché quando l’inverno comincia a congedarsi, c’è bisogno di guerrieri resistenti alla violenza dei temporali, del cambio, dell’imprevisto. Perché la linfa vitale che stava nascosta in una natura inaridita e morta solo per occhi distratti, si ripigli tutto il suo spazio per esplodere.

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