Immigrazione

Ripercorrere la Rotta Balcanica con gli adolescenti che vivono in comunità

Un pomeriggio con i ragazzi, seguiti dalla Fondazione Exodus di Don Mazzi, che hanno commesso reati. Sono italiani, di origine straniera, alcuni sono minori stranieri non accompagnati. Ognuno con il peso della sua storia. Un incontro per confrontarsi con la diversità e imparare ad andare oltre

di Alice Rimoldi

Quattrocento chilometri separano la sede di Milano della Fondazione Exodus di Don Mazzi da piazza della Libertà a Trieste, dove arrivano i profughi della Rotta Balcanica e operano Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, i fondatori dell’associazione di volontariato Linea d’Ombra. I coniugi, insieme a un gruppo di volontari e volontarie, da anni offrono aiuto, vestiti, cibo e curano le ferite dei migranti curdi, iracheni, siriani e afghani che attraversano tutti gli Stati dei Balcani per giungere lì. Arrivano coi piedi piagati dal lungo cammino nei boschi e molto spesso subiscono violenze durante il percorso.

Siamo nella sede milanese della Fondazione con un gruppo di adolescenti tra i 16 e i 18 anni che vivono nella comunità di Garlasco gestita dalla Fondazione. Ci sono anche il fondatore Don Antonio Mazzi e Franco Taverna, responsabile dell’area “povertà educativa” della Fondazione e del progetto “Pronti, Via!” nato all’interno di Exodus quattro anni fa, rivolto a minori con misure restrittive o posti sotto la tutela di assistenti sociali e autorità giudiziarie, l’iniziativa è finanziata dall’Impresa Sociale Con i Bambini. Don Antonio e Franco Taverna hanno chiesto a VITA di spiegare al gruppo di ragazzi che cos’è e com’è nata la Rotta Balcanica. Il racconto è partito da Trieste perché idealmente è lì che la Rotta finisce. 

Abbiamo detto che sono 400 i chilometri che separano piazza della Libertà dalla sede di Exodus, però Don Antonio Mazzi sceglie di «leggere la vita a passi, per capire meglio il momento e il prima e il dopo». 400 chilometri sarebbero più di 500mila passi. Così lontano, eppure è come se alcuni dei ragazzi seguiti dalla Fondazione ci fossero stati. Trieste, Lampedusa, Crotone: tutti luoghi d’arrivo di migranti alla ricerca di un’altra vita possibile. Annuiscono alcuni di quei giovani, mentre gli viene spiegata la storia della Rotta Balcanica. Cala il silenzio mentre scoprono com’è nata nel 2015 e poi com’è cambiata con gli accordi tra Unione Europea e Turchia siglati l’anno successivo per limitare l’afflusso migratorio. Tutti ascoltano il racconto di chi ha visitato davvero quei luoghi e ha visto i campi profughi pieni e gli edifici abbandonati occupati (gli squat) nel cantone di Una-Sana in Bosnia, dove i migranti restano bloccati dai respingimenti e si accampano per poi tentare nuovamente di passare il confine con la Croazia nel cosiddetto “game”. 

I ragazzi della comunità sono tutti diversi tra loro: vengono dall’Italia, dal Marocco, dalla Tunisia, dall’Egitto. Lo sguardo che rivolgono a Don Mazzi però li accomuna tutti, le labbra appena increspate in un sorriso quando con la sua voce potente, a dispetto dell’età che lo vorrebbe fragile, Don Antonio dice: «I gesti per ora sono solo gesti, poi diventano cultura e qualcuno di voi magari li renderà politica, siete il futuro dell’Italia, cazzo!»

Non hanno paura di dire la loro, di esprimere un’opinione contraria a ciò che dicono gli altri. Qualcuno i migranti non li vuole, qualcuno invece è migrante e per raggiungere l’Italia ha attraversato il mare. Riuniti in cerchio intorno a un tavolo di pietra immerso nel giardino della sede milanese della Fondazione, che pare un’oasi di pace, parlano senza restrizioni. Non esistono cose che non si possono dire. Per Don Mazzi il confronto con esperienze, storie e opinioni diverse dalla propria è un mezzo per crescere, per comprendere e accettare l’altro da sé. 

Davide: «Io i migranti non li voglio»

«Qui non servono. Fanno solo casino, facessi così io all’estero non mi potrei lamentare se poi insultano tutti gli italiani. Sei un ospite, se rompi un vaso a casa tua lo aggiusto o lo butti, ma a casa degli altri stai più attento». Ha 18 anni, i capelli chiari e una sicurezza ostentata. Non risiede nella comunità, ma vi passa delle giornate come parte dei lavori socialmente utili prescritti dal Tribunale nella sua messa alla prova. È un’esperienza part-time la sua in comunità a Garlasco, la sera torna a casa, dalla sua famiglia a Monza. Lavora come cameriere, frequenta l’Istituto tecnico economico, esce con la sua ragazza. Come ogni ragazzo della sua età. Con un procedimento penale sulle spalle per ricettazione e lesioni.

Tariq: «Basta soldi sporchi, farei qualsiasi lavoro»

Ha i capelli lunghi Tariq, raccolti ordinatamente, scuri e lucidi. Compirà 18 anni tra una decina di giorni e viene dalla Tunisia. Si presenta in modo diretto, quasi istituzionale: «Sono un minore straniero non accompagnato». È arrivato qui, da solo, poco più di un anno fa, il 16 luglio 2023. Spiega che non gli piaceva il suo Paese: «io studiavo, ma è un posto pieno di ladri e corrotti». Così, a 16 anni, ha lasciato la famiglia e trovato il corrispettivo di 2.250 euro per pagare i trafficanti che controllano i viaggi sul Mediterraneo. 15 ore in 75 persone su una vecchia barca, poi l’intervento della Croce Rossa che li fa sbarcare a Lampedusa. «Sono stato qualche giorno lì, poi in un centro a Catania e in una comunità. Sono a Garlasco da settembre dell’anno scorso perché sono ancora sotto tutela. Quando voglio posso andarmene, noi stranieri troviamo sempre il modo di cavarcela». È deciso, sa già che percorso intraprendere. «Quando sono arrivato avevo mezza panetta, non mi hanno perquisito. Doveva essere per me, ma poi a Lampedusa il cibo faceva schifo, così io e altri abbiamo capito come uscire. Abbiamo trovato subito la piazza dello spaccio, con quei soldi compravo da mangiare. Ma adesso basta, non lo voglio più fare. Voglio soldi puliti». Vuole continuare a studiare l’italiano e allenarsi con il pugilato, come faceva in Tunisia. Soprattutto vuole studiare per diventare idraulico. Si immedesima con chi arriva a Trieste attraverso la Rotta Balcanica: «ho provato un rischio simile, so cosa significa».

Mattia: «Io non so che voglio fare»

16 anni e lo spaesamento dell’adolescenza, la maglia dell’Inter e il sogno di fare il calciatore già previsto come impossibile con il disincanto di chi si è scontrato già con la realtà del mondo. «Facevo l’alberghiero ma ho lasciato a 14 anni, poi mi sono messo a spacciare. Ora sono a Garlasco da due mesi, ma non so che fare poi, non voglio studiare». Per tutti le comunità di Exodus sono diverse dalle altre, un mondo a parte. Lorenzo è appena tornato da una Carovana (viaggi che Exodus propone da 40 anni, in cui si fanno attività e riflessioni) quella dalla Lombardia alla Calabria. Le camminate vicino al mare e poi sulle montagne gli sono piaciute. Quando ci salutiamo si avvicina e dice: «Forse voglio fare il giornalista anche io».

Omar: «Sono mezzo pugliese»

«Mia nonna viene da Cerignola, sono mezzo pugliese ma sono nato a Desio», si presenta così il diciottenne Youssef. Spiega l’origine del suo nome solo dopo, «mio padre viene dal Marocco, ma non ho nient’altro di suo». Un rifiuto netto di quell’uomo che avrebbe dovuto amarlo e proteggerlo e invece gli ha fatto conoscere la violenza fin dall’infanzia. Parla con più indulgenza invece della madre, latitante per anni e poi arrestata per spaccio internazionale. Da una comunità all’altra, ne ha viste tante, fin da bambino, «facevo bordello e mi facevano cambiare posto, ma poi scappavo sempre». L’ultima volta è scappato per raggiungere la madre ai domiciliari, si procurava i soldi con le rapine. «Adesso sono in messa alla prova per quello. A Garlasco mi piace, è diversa da tutte quelle che visto, si lavora davvero. Ho chiesto io di stare qui al giudice perché sapevo che a casa mi sarei rovinato con le droghe». Sorride anche con quegli occhi così scuri quando confessa di voler fare il cuoco sulle navi da crociera: «così viaggio e non spendo, non c’è nemmeno il monopolio sulle sigarette». Che viaggiare gli piaccia si sente anche quando parla delle Carovane: «non sono come delle vacanze, fanno vedere le cose in modo diverso, però per capirlo devi farlo». Parlando della Rotta Balcanica e dei volontari di Linea d’Ombra dice: «mi ha fatto capire che nel mondo ci sono persone che vogliono aiutare gli altri».

Saeed: «Voglio restare in Italia»

Appare così piccolo, ancora di più di quanto sia, forse perché pare volersi confondere con la sedia da tanto è silenzioso. Tradiscono la sua età solo i baffi appena accennati tipici dell’adolescenza, ha 15 anni Saeed. È nato in Egitto ed è arrivato in Italia da un anno. L’italiano lo parla meglio di quanto ci si possa aspettare, solo ogni tanto si fa tradurre qualche frase da un ragazzo che vive in comunità con lui, che è tunisino e riesce a farsi capire, nonostante le differenze che spiega esistono tra le due lingue. Saeed è partito da solo, dice soltanto che il suo Paese non gli avrebbe dato un bel futuro. Poi spiega di aver camminato con altri migranti per due giorni, nascondendosi dalla polizia egiziana, fino alla Libia. Lì sono stati stipati in un magazzino, talmente stretto da costringerli a dormire gli uni sugli altri e con poco cibo. Non racconta della traversata, passa subito all’arrivo in Sicilia, al centro di Catania dove è stato in un primo momento. Subito dopo dice che non vorrebbe restare troppo in comunità, vuole imparare subito l’italiano, lavorare come idraulico. «Voglio restare in Italia». Impossibile per lui non immedesimarsi coi profughi: «ho passato del tempo come loro, mi piacerebbe aiutare quella gente».

Per Davide i migranti portano guai e solo i suoi compagni in comunità rappresentano un’eccezione. Forse, passo dopo passo, imparando ad immedesimarsi, se ne aggiungeranno altre, di eccezioni, fino a diventare la regola. Tariq potrebbe trasmettere anche ad altri la sua determinazione e la convinzione che impegnandosi si può arrivare ovunque e che vale la pena aiutare gli altri. Mattia potrebbe trovare la sua direzione. Omar col tempo potrebbe scoprire il piacere di fermarsi in un luogo dopo anni a fuggire. Saeed, con tutta la vita ancora davanti, può mostrare cosa significa rischiare la vita per averne una migliore. Il progetto della Fondazione è quello di organizzare una carovana per portare a Trieste i ragazzi della comunità.

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