Non sapevo esattamente dove fossimo diretti. Mi fidavo di lui e questo bastava a giustificare quella strana visita.
Appena entrati, in un solo istante fummo investiti da chiari segnali di vita che pulsava prepotentemente: pianto infantile, sguardi di occhi spalancati, odori forti e indistinguibili, il volume troppo alto di una radio, il freddo di un ambiente senza riscaldamento da chissà quanto. La casa (se quella poteva dirsi casa) era abitata da una donna, giovane, con due figli piccoli.
Di fronte alla scena inaspettata, la mia reazione non si fece attendere. Fu un attimo, violenta, irrispettosa, e malgrado tutto trattenuta. Il mio ‘maestro’ stava cominciando ad aprire la scatola che custodiva i “generi di conforto”. Estraeva ogni confezione con così intensa dolcezza da anticipare l’atmosfera natalizia. Dal tono confidenziale con cui si rivolgeva alla donna compresi che non si trattava della prima volta.
Tentai di interrogarmi sul senso del ‘quadretto’ che mi stava davanti. Era tutto così incomprensibile per i miei sedici anni (“dov’è suo marito? Come mai in casa mancano zucchero e pasta? E domani, come faranno senza il nostro aiuto?”). Non feci in tempo a fantasticare una spiegazione. Le note di un violoncello (un pezzo di Ron) stavano già coprendo i miei pensieri inutili.
Quando mi accorsi che eravamo di nuovo in strada cercai consolazione. Senza trovarla. Eppure provavo ancora gioia per il maglione nuovo che avevo indossato quella domenica sotto gli occhi orgogliosi di chi l’aveva fatto con le sue mani materne.
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