Cultura

Riguadagnare la realtà scavando sino all’osso

Dieci anni di anoressia e ora un'opera prima straordinaria

di Riccardo Bonacina

Trentenne, milanese,
è al suo primo romanzo.
«360 gradi di rabbia», storia
di un’anoressica in cerca di se stessa, di un rapporto autentico con la religione, della verità di sé,
degli affetti e delle cose. Originalissimo per la sua scrittura paratàttica e per la sua costruzione fatta
di metafore fisiche, carnali, mai superflue.
Racconta di una discesa agli inferi e di una resurrezione.
Possibile per Grazia.
E per nostalgia di umanità
Il romanzo di Elena Mearini, 360 gradi di rabbia (edizioni excelsior 1881) è un’opera prima dalla forza straordinaria. Una forza che sta tutta dentro l’elemento primo della scrittura: la parola. Parole che si agitano come corpi, parole come sassi, ordinate a incastro, parole carne e corpo, che non scivolano mai sulla pagina ma la incidono e che compongono, come in un puzzle battuto in ferro, i 37 quadri che fanno il romanzo. Sono 130 pagine di spessore quasi inaudito nella letteratura di oggi: zero letteratura, zero astrazione, zero “fru fru”, zero concessioni mondane. Invece una scrittura per metafore che però non si fa mai barocca, abbondanza di analogie ma per dare colore e peso, una scrittura paratàttica mozzafiato. Per usare un titolo di Antonin Artaud, potremmo dire una scrittura “pesa-nervi”. Insomma, scrittura come lavoro, o forse di più, come “esercizio” su di sé, esercizio di scomposizione e ricomposizione, scrittura come morte e resurrezione.
Le note biografiche di questa esordiente che ha frequentato la scuola di scrittura di Raul Montanari (a cui devo la segnalazione del romanzo e un messaggio, «Sono certo che ti piacerà»), non dicono molto. È trentenne e oggi lavora come “pierre” in un’azienda chimica. Ha fatto teatro con Massimo De Vita al Teatro Officina a Milano, e poi tra i bambini e in carcere. E questo c’entra. Ha attraversato per dieci lunghi anni l’anoressia. E questo c’entra, eccome, anche con il romanzo.
Anoressia che nel romanzo, ad esempio, è raccontata così: «Ginocchio destro. Sinistro. Il bacino rientra. La testa cade. Avanzo a scatti di marionetta. Gambe di legno e la fuga s’inchioda. I nervi si fanno duri. Lamentano il cielo. (?) Muscoli rigidi come sbarre. Scontro di gomiti e testacoda di fianchi. (?) Cammino per la strada e la gente guarda. Addita il mio corpo con l’imbarazzo sotto l’unghia. I loro occhi inciampano contro gli spigoli delle ossa. Si frantumano addosso allo sterno. Cadono nella morsa delle scapole».
Anoressia, quindi, ma anche Craig, Mejerhold, Jarry, e le marionette metafisiche. Anoressia, certo, ma il romanzo racconta anche del rapporto con la religione, del rapporto con la madre o con un padre che parla con silenzi e gesti. Incontriamo Elena Mearini per capire di più da dove arrivi questo libro potente, da che lavoro e da quale storia.

Elena Mearini: 360 gradi di rabbia è nato in tre anni e mezzo di lavoro. Un tempo lungo perché ho dovuto rielaborare un vissuto personale, quello dell’anoressia che ha preso dieci anni della mia esistenza. Ho dovuto condensare questo mio vissuto per metterlo all’interno di un romanzo che non volevo fosse totalmente autobiografico. Mi interessava dare voce a quello che è stato il disturbo ma all’interno di un impianto narrativo di invenzione. Mi fa piacere che questo sia stato notato perché ci tenevo e anche perché l’anoressia è un enorme contenitore dentro cui c’è di tutto. Il titolo del romanzo è davvero indicativo perché la rabbia è una grandissima componente del disturbo che può portare a una comunicazione così brutale come quella di chi dice: «Io non mangio più». È la mancanza di quiete, il disagio preadolescenziale che evolve sempre di più verso lo snervamento e una rabbia che è davvero a 360 gradi e che ha bisogno di essere dichiarata. L’anoressia è un modo forte, devastante, di comunicare questa rabbia. Il processo che mi ha portato a scrivere questo libro è stato lungo perché sono andata avanti per quadri, ho scritto i pezzi che per me erano più urgenti: la voce del disturbo che è la parte centrale del romanzo e che era per me più impellente. Poi, piano piano si è delineato il personaggio di Vera che, grazie a Dio, si è staccato da me evitandomi l’autorefenzialità che poteva soffocarmi o accecarmi. Grazie a Vera ho poi potuto seguire la sua voce che aveva in comune con me il disturbo dell’anoressia ma che man mano è riuscita a dettarmi le sue emergenze, delineando così una storia a sé.
Vita: Un’urgenza di scrittura che si esprime con la forza delle metafore?
Mearini: C’è uno scrittore che amo, Gesualdo Bufalino, che a chi gli chiedeva dell’abbondanza della sua scrittura diceva: «Voglio combattere l’ossificazione del mondo». Ecco il linguaggio quotidiano non mi basta, voglio scomporre la realtà in immagini, voglio trovarci tutta la ricchezza, la forza, voglio che alle persone possa arrivare una verità, una forza anche sanguinea che nella realtà c’è, eccome. Vorrei toccare le persone oltre il primo strato di pelle. Non c’è una grande ricerca di scuola o letteraria, è connaturata al mio modo di essere, anche queste concrezioni analogiche quando scrivo le vedo. Visualizzo molto la scrittura. Sono cresciuta in una casa piena di quadri, di dipinti, e forse questo c’entra. Le pareti erano piene di immagini, immagini con cui da bambina dialogavo.
Vita: Il romanzo inizia in una cella di Parigi: «Qui dentro non ci sono svincoli. Le sbarre piantano chiodi ai piedi. Impediscono la fuga lungo strade già percorse. L’unica via concessa è quella del mio corpo». Lì inizia il percorso a ritroso di Vera, un percorso di morte e resurrezione?
Mearini: Ho voluto inserire il personaggio all’interno di una costrizione molto forte come il carcere, da cui non puoi scappare né fuggire. Vera deve capire cosa le è accaduto nel corso degli anni. L’inizio nel carcere è il momento in cui Vera, senza possibilità di fuga, deve fare i conti con la sua vita, con le sue scelte e con le sue non scelte, guardandosi indietro, rivedendo il film della sua esistenza. Ho pensato di metterla in una situazione di costrizione come una cella perché mi sembrava fosse la situazione più cogente per una presa di coscienza totale e brutale. Il romanzo finisce con la sua uscita dal carcere, dopo che il film si è del tutto riavvolto; la costrizione ha esaurito il suo scopo. Vera esce dal carcere con uno sguardo nuovo.
Vita: Non mi meraviglia che su questo libro abbia lavorato più di tre anni, ma, mi chiedo, vista la forza di queste pagine e il lavoro che queste parole implicano, poi? Se, come mi è parso, la sua scrittura implica un lavoro così feroce, così faticoso, cosa scriverà ora?
Mearini: È il modo di scrivere ad essere così, è la mia voce, non riesco proprio a scrivere in altri modi, questo può essere un mio limite ma anche una mia forza. Se dovessi scrivere in un altro modo, rinunciando alle metafore, alle frasi secche, brevi, mi sembrerebbe inutile farlo. Amo scrivere, ma per me non è un processo semplice.
Vita: È un processo che implica una certa dose di sofferenza quindi?
Mearini: È così, forse anche per questo uso parole che hanno a che fare con la fisicità, la carnalità, a volte anche l’anatomia (nervi, tendini, organi). Quando scrivo, persino a livello fisico, sono molto contratta come se fosse proprio il mio corpo ad avere un’urgenza di parlare, di vivere, e in quel momento, sembra paradossale, la parte di me più razionale e cosciente, quella mentale, è come facesse un passo indietro con molta umiltà, per retrocedere rispetto al corpo ascoltando i suoi suggerimenti, le sue spinte fisiche affinché loro prendano il sopravvento e voce.
Vita: C’entra questo con la sua esperienza di anoressia?
Mearini: Certamente l’anoressia porta il corpo a un mutismo e a una incapacità di comunicare che dura anni. C’è il rifiuto della comunicazione del corpo, dei suoi desideri, delle sue pulsioni, compresa la sessualità. Perciò questa assenza di ascolto da parte del corpo, questa mutilazione, questo stare tutta dentro l’attività mentale, il ragionamento, probabilmente c’entra con la scrittura che ora mi chiede di fare esattamente l’opposto.
Vita: Forse è un modo di scrivere che ha a che fare con la ricerca della verità. Montanari nota come la protagonista di 360 gradi di rabbia si chiami Vera, non a caso?
Mearini: In Vera c’è la volontà di arrivare all’osso: non a caso decide di non mangiare più. Ha bisogno di scarnificare tutto ciò che le pare lontano dal vero, non autentico, comodo, finto, alterato. Compresa la religione. Quindi ho voluto che si chiamasse Vera proprio per questo suo scarnificare tutto ciò che lei non percepisce come vero. Il rapporto con la religione è poi una costante della mia scrittura, è un tema su cui ancora sto lavorando e sviscerando perché l’ho vissuto in maniera fortissima.
Vita: È un tema su cui sta ancora lavorando?
Mearini: Sì, e in maniera ancor più focalizzata, specifica. Sto lavorando su una crocifissione intesa come eroismo e possibilità offerta all’uomo di emulazione. La strada dell’emulazione dell’abnegazione di Cristo nel salvare l’umanità. Quindi, l’uomo, se vuole fare come lui, deve farsi carico del maggior numero di sofferenze possibili e deve accettare persino il sopruso come Cristo. Un pensiero che parte da una volontà di emulazione ma che porta a un dramma.
Vita: Insomma, l’idea di guadagno invece della Grazia e della misericordia?
Mearini: Già, come se ti dovessi guadagnare delle stigmate quotidiane per poi mostrare il palmo con dignità. Anch’io ho dovuto riguadagnarmi una strada diversa da quella dei miei alla fede. Fede che comunque ha avuto e ancora ha un ruolo fondamentale nella mia vita. Ma oggi è una fede libera dall’immagine della sofferenza che alla fine diventa una convenienza e una presunzione. Accetto di soffrire perché qualcosa mi ritornerà, perché qualcosa mi sarà dovuto. Un’idea che alla fine ti incattivisce persino a livello sociale. Quindi, una salvezza come pretesa e non più come Grazia.
Vita: Si è data una spiegazione del perché sia tanto diffusa oggi l’anoressia?
Mearini: Spesso si dice dell’anoressia che è una mancanza d’amore, secondo me non è esattamente questo, parte dalla rabbia, da una grande incazzatura che oggi non ha più direzioni e canali di sfogo nonostante ci siano sempre più motivi per arrabbiarsi. È difficile trovare il lavoro, è complicato mantenere una relazione, è difficile trovare dei punti di riferimento. Viviamo in una società in cui ci sono una serie di fratture costanti e di imposture e chi cerca un percorso di vita, soprattutto se giovane, non può che provare stizza, rancore, un senso di rivalsa. Viene quasi spontaneo dire: «Così basta», «Così non può andare avanti», «Così non ci sto». «Perché le persone più care non capiscono questa mia rabbia, perché non capiscono che io voglio cambiare le cose?». Già, anche la volontà di cambiamento che non trova più strade. Allora cosa può spaventare/svegliare le persone care che ti stanno attorno e sembrano non capire questa tua rabbia, sembrano non darle importanza e ascolto? Devi trovare il modo per acquisire il potere di far capire agli altri che così le cose non vanno e devi trovare un modo talmente brutale e definitivo per far sì che la situazione attorno che ti fa arrabbiare, per forza cambi. Sei convinto che questo possa accadere attraverso un atto radicale come quello del non mangiare più e così obbligare le persone intorno ad osservarti lentamente morire, lanciando loro una sfida enorme. Sei totalmente determinato nel tuo obiettivo e nel voler rovesciare e ribaltare la situazione che ti fa arrabbiare. Ma il problema è che le cose intorno a te non cambiano perché dai 50 chili scendi a 35. Gli altri continuano a non capirti. A un certo punto non ti interessa più il male che stai provocando agli altri, non ti frena più, perché l’unica cosa che desta il tuo interesse è raggiungere il prossimo obiettivo: scendere a 30 chili. Come Vera, sempre sospesa tra l’essere e un’idea di essere, e in questa sospensione non c’è più vita reale. Arrivi a sperimentare delle emozioni molto crudeli, molto feroci e la cosa più agghiacciante in questo percorso è che ti viene a mancare la pietà. Non puoi, del resto, avere pietà quando insegui la morte con tanta ostinazione, man mano si prosciugano anche gli affetti. Però, a un certo punto, ti può accadere, come è successo a me e a Vera, che hai voglia di ricominciare a sentire pietà perché hai nostalgia della tua umanità che stai perdendo. A un certo punto ti domandi: ma la mia umanità dov’è finita? E ti dici: ma io mi commuovevo quando qualcuno soffriva od era triste, ed ora sto perdendo la capacità di sentire insieme agli altri. Ed è così atroce l’idea, anzi la sensazione fisica di questa disumanizzazione, che ti fa più paura questo che vedere il tuo corpo spaventoso.
Vita: La resurrezione inizia con la nostalgia per la propria umanità, quindi?
Mearini: Avvertire questo sentimento di nostalgia per la propria umanità in modo così stringente è stato per me Grazia, nel senso più pieno del termine, una grande spinta a risorgere. Nel libro c’è il personaggio di Maddalena che per Vera è un po’ la Grazia che arriva: la sua pienezza di vita, persino fisica e nei movimenti, scatena in Vera questa nostalgia di umanità. Perciò comincia a seguirla quasi introiettandola.


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