Politica

Rifugiati: primo, aiutarli

Parla Daniela di Capua, direttrice del Servizio Centrale del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati

di Riccardo Bianchi

Il tema dei richiedenti asilo sta rimbalzando sulla stampa italiana dopo le parole del presidente del Consiglio che ha affermato di non considerare gli immigrati di Lampedusa come «rifugiati politici perché pagano un biglietto a dei delinquenti» e quelle di un quotidiano vicino al governo secondo cui soltanto il 10% di coloro che chiedono asilo politico poi lo ottengono. Ma quanti sono i rifugiati in Italia, e, soprattutto, chi sono? Vita l’ha chiesto a Daniela di Capua, direttrice del Servizio Centrale del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati.

Il ministro Maroni ha detto che solo chi è perseguitato personalmente può essere considerato un rifugiato politico…
«È vero, è così. Ma è anche vero che molti che arrivano in Italia hanno alle spalle esperienze terribili e necessitano di aiuto e assistenza»
Per esempio?
«Una donna che è stata vittima di stupri o rischia di subirne se torna nel proprio paese. Un uomo, o peggio un bambino, che se rimettesse piede nella propria città sarebbe costretto ad essere arruolato. Ma sono solo alcuni dei casi»
Però non sono rifugiati…
«No, ottengono protezione sussidiaria o umanitaria. Non corrono rischi per motivazioni politiche, ma ricevono comunque la stessa assistenza. Nel 2008 abbiamo avuto 35mila domande, di cui 22mila già esaminate. E la metà ha ricevuto o lo status di rifugiato o una forma di protezione (nel 2007 le domande sono state 14mila, meno della metà ndr
E tra chi è stato riconosciuto come bisognoso di una qualche forma di sostegno, quanti arrivano da Lampedusa?
«Circa, il 30-40% (78% nel 2007 ndr). Gli altri passano dalle frontiere, spesso con i camion, o atterrano con l’aereo. È una considerazione importante, visto che gli immigrati sbarcati sulle coste del Mediterraneo sono il 70% di quelli che ogni anno entrano nel paese»
Secondo lei la scelta di rimandare indietro i barconi che ripercussioni può avere sulle persone che si trovano ad essere riportate in Africa?
«Non entro nel merito della questione, perché capisco che uno stato debba arginare un’emergenza come questa. Però bisognerebbe pensare che tra questa gente c’è sempre qualcuno che merita un aiuto, che ha alle spalle esperienze terribili da cui sta fuggendo. Dal punto di vista umano è sconvolgente»
Il governo ha affermato che manderà le commissioni in Libia per valutare le richieste di asilo. È un’ipotesi realizzabile?
«Ho qualche dubbio, bisognerebbe capire meglio cosa si intende. La Libia è un paese che non ha ratificato né la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, né la Convenzione di Ginevra sui richiedenti asilo, né riconosce il diritto all’asilo. Non penso che le autorità libiche possano garantire la massima neutralità nei confronti delle varie cittadinanze, soprattutto durante gli incontri per la valutazione. E non so se ci siano le condizioni necessarie per un’operazione del genere».
Che condizioni?
«Un immigrato ha bisogno di un po’ di giorni, e di molta tranquillità, prima di incontrare la commissione. Deve calmarsi, riprendere le forze, riorganizzare i pensieri dopo tutto quello che ha passato. Dubito che in Libia lo possa fare»
L’Italia continua a chiedere un intervento dell’Europa…
«A livello legislativo ormai le norme sono comuni. E anche economicamente c’è il fondo per i rifugiati da cui l’Italia attinge anche per supplire ai costi delle emergenze. Ma magari per progetti di prima accoglienza ci potrebbe essere maggiore coordinamento tra gli stati, per ricongiungere i rifugiati con le famiglie, con le loro comunità che risiedono in vari parti dell’Unione. Ma è un po’ utopico»
Nel nostro paese quante persone sono state accolte nei vostri progetti?
«Nel 2008 nei 138 progetti e 3mila posti disponibili abbiamo ospitato circa 8mila persone»
C’è chi accusa che le spese siano eccessive…
«Il costo medio al giorno è di 32 euro a persona, comprensivi di tutto, dal cibo agli assistenti sociali, dai tirocini formativi per insegnare un lavoro alle cure mediche. Per le categorie vulnerabili, come i disabili, i minori, le donne incinte e le vittime di tortura, si arriva a 50 euro. Vorrei precisare che i soldi non vengono dati in mano, vengono gestiti per fornire i servizi necessari»
E i risultati?
«I risultati sono buoni, ma soprattutto è indispensabile ottenerli. Quando questi uomini e queste donne escono dai progetti devono essere indipendenti. Se non si sono integrati, se non hanno un’occupazione e una vita tranquilla, non conviene a nessuno che vaghino allo sbando per le città».


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