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Riforma Senato: per la rappresentanza dei territori è una svolta

La costituzionalista Lorenza Violini ricostruisce il senso di una riforma epocale, ma che vedrà i suoi effetti solo fra 5 anni: «Le Regioni perdono potere a livello locale, nel governo dei loro territori e dei loro cittadini ma guadagnano una pur esigua fetta di potere nella gestione delle istituzioni nazionali

di Lorenza Violini

Il 13 ottobre la riforma del Senato è stata approvata dal Senato stesso, una scelta coraggiosa perché con essa i senatori hanno votato la loro definitiva decadenza senza possibilità di rielezione. Ora dovrà tornare alla Camera perché confermi tale decisione secondo la regola della doppia votazione del testo prevista dall’art. 138 Cost. , che regola il processo aggravato di riforma della Costituzione.

Una prima notazione va fatta: solo tra 5 anni sarà possibile vedere il compimento di questo iter riformatore: occorrerà infatti aspetta che tutte le Regioni abbiano votato per il loro Consiglio regionale e che, contestualmente, abbiano votato anche per i Consiglieri che dovranno rappresentare le Regioni stesse in Senato. A tali componenti andranno aggiunti i Sindaci (uno per regioniìe) e i senatori eletti dal Presidente della repubblica. In totale 100 componenti.

Questa prima annotazione denota la lunghezza e la complessità dei processi di riforma costituzionale: occorre tenerne conto, al di là della fretta con cui si affrontano le questioni in sede politica. Bene così, comunque: la Costituzione non deve essere messa nelle mani della politica di partito, quella dei tempi brevi, della ricerca del consenso a tutti i costi. I tempi della Costituzione sono lunghi, distesi, le norme costituzionali sono fatte per durare nel tempo, per mettere in chiaro che occorrono fondamenti per la vita civile e non bastano i messaggi veloci dei social network.

Il cambio di rotta nella composizione del nostro Parlamento è epocale: di riforma del Senato si discute dagli anni Cinquanta. Si erano appena chiuse le porte dell’Assemblea Costituente che già la dottrina tornava a riflettere sul tema del bicameralismo perfetto (ove perfetto è davvero solo un eufemismo), messo in Costituzione per un compromesso di livello minimale tra chi, a sinistra, voleva il monocameralismo e chi, a destra, voleva invece una Camera molti diversa, possibilmente rappresentativa di gruppi sociali o di categorie produttive o di enti locali. L’intento di questi ultimi era di avere una integrazione della rappresentanza popolare con rappresentanze di altra natura, segno di quelle formazioni sociali citate nell’art. 2 della Costituzione. Così non avvenne e le due fazioni si incontrarono a metà strada e inserirono in Costituzione un bicameralismo di facciata, visto che le due Camere hanno una composizione analoga e funzioni perfettamente simmetriche. Perché due, dunque? Meglio ripensare al disegno ed elaborare qualche proposta innovativa, una proposta che dopo decenni dovrebbe essere attuata tra qualche anno ma che già è prefigurata dalle norme costituzionali votate.

I contenuti della riforma sono noti: si crea un Senato delle Autonomie locali praticamente estromesso dal procedimento legislativo ed estromesso del tutto dal conferire la fiducia al Governo. Avrà competenze legislative residuali salvo in caso di riforma della Costituzione e di leggi per la regolamentazione degli enti locali (e pochissime altre): niente bilancio, niente legge finanziaria, tutte funzioni che restano affidate alla prima Camera salvo poteri di intervento in sede consultiva. Avrà da intervenire nei processi di produzione normativa europea e nel caso in cui si decida di valutare le politiche nazionali secondo procedimenti tecnici volti a stabile l’impatto delle leggi stesse: un potere quest’ultimo che potrebbe essere molto utile al Paese se venisse preso sul serio, come ce lo chiede l’Europa (e questa volta a buon diritto)

la perdita non compensa il guadagno per le Regioni; eppure si spera che a guadagnarci sia il sistema nel suo complesso: un governo più stabile essendo legato da una sola Camera che gli conferisce la fiducia, un parlamento che lavora con più agilità, un risparmio dovuta alla diminuzione della classe politica, che era tra le più numerose del mondo, regioni più controllate in sede governativa

Lorenza Violini

I nuovi senatori verranno eletti dai Consigli Regionali seguendo le indicazioni che emergeranno dal corpo elettorale regionale e apparteranno anche al Consiglio Regionale, a cui risponderanno delle loro azioni; non saranno più, se non indirettamente, rappresentati del popolo ma daranno voce ai territori e alle loro istituzioni, secondo una logica che era stata prefigurata dalla Commissione dei Saggi creata dal presidente Napolitano. Essi dunque, rappresenteranno le Regioni, che ora dispongono di un loro organo rappresentativo nell’ambito delle istituzioni nazionali, a parziale ristoro della significativa perdita di competenze legislative perviste dalla stessa riforma. I due aspetti del nuovo disegno di legge vanno infatti letti insieme: Regioni che perdono potere a livello locale, nel governo dei loro territori e dei loro cittadini ma che guadagno una pur esigua fetta di potere nella gestione delle istituzioni nazionali. Certo, la perdita non compensa il guadagno per le Regioni; eppure si spera che a guadagnarci sia il sistema nel suo complesso: un governo più stabile essendo legato da una sola Camera che gli conferisce la fiducia, un parlamento che lavora con più agilità, un risparmio dovuta alla diminuzione della classe politica, che era tra le più numerose del mondo, regioni più controllate in sede governativa.

Molte le critiche, come è ovvio che sia. Senza stare a ripercorrerle tutte basti qui dire che, se si riesce nell’impresa, il Paese avrà dato prova di sapersi rinnovare. Questo è, in fin dei conti, il vero guadagno.

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