Welfare

Riforma non autosufficienza, le attese tradite

A un anno dall'entrata in vigore del decreto 29/2024, parte da Milano la campagna territoriale organizzata dal Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza per riaccendere il dibattito pubblico attorno alle criticità della riforma della no autosufficienza. Per il coordinatore Cristiano Gori quanto fatto finora lascia «l’amaro in bocca», ma pone «basi importanti» per sviluppi futuri

di Francesco Crippa

A quasi quattro anni dall’inizio dell’iter normativo che ha portato – anzi, sta portando – alla riforma del sistema di assistenza per le persone non autosufficienti, il bilancio è agrodolce. Una legge è arrivata – la legge delega 33/2023 – ma il primo (e finora unico) decreto attuativo che le ha fatto seguito invece che renderla chiara e operativa ha portato confusione. È questo il quadro tratteggiato dal Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza, la coalizione sociale nata nel 2021 proprio per portare all’attenzione della politica i bisogni e le criticità di un sistema che attende una legge da oltre trent’anni. «Almeno c’è stato il riconoscimento del settore dell’assistenza alla non autosufficienza, che è il primo passo per qualunque riforma», ha detto Cristiano Gori, coordinatore del Patto, intervenendo a Milano al convegno Dai principi alle persone: il futuro della non autosufficienza, promosso in collaborazione con Percorsi di secondo welfare. È il primo appuntamento di una campagna territoriale che si concluderà a giugno a Roma e  il cui obiettivo è individuare le priorità irrisolte e sottoporle all’attenzione delle istituzioni.

Quanto fatto finora è stato uno step fondamentale, che però lascia insoddisfatti. Se si guarda il bicchiere mezzo vuoto, infatti, ci si accorge che molte delle conquiste che si pensava di aver raggiunto con l’approvazione della legge 33/2023 sono state «tradite» dal successivo decreto legislativo 29/2024. Un disallineamento che, nei fatti, ha rotto i pezzi della prima precaria cornice che era stata costruita attorno alla non autosufficienza. Una situazione, ha detto Gori, che «nel breve periodo ci lascia l’amaro in bocca, ma che sul lungo ha posto delle basi importanti. Vedremo se saremo in grado di sfruttarle».

La legge 33/2023 aveva tre punti fondamentali. Primo, costruire un sistema unitario di assistenza continuativa, in modo da superare la caotica frammentazione del settore. Secondo, definire dei nuovi modelli di intervento, data l’inadeguatezza di quelli esistenti. Terzo, ampliare l’offerta dei servizi per superare i disagi causati dall’insufficienza degli attuali stanziamenti pubblici.

Tuttavia, il dlgs 29/2024, invece che dare sostanza alla forma immaginata dalla legge ne ha riscritto alcuni dei principi operativi fondamentali. Per sintetizzare il messaggio di Gori: un’anomalia mai vista prima. Il decreto si è discostato dalla legge soprattutto su due punti: la riforma della valutazione multidimensionale unica e la definizione del perimetro della prestazione universale per gli anziani. 

La riforma della valutazione multidimensionale unica

Partiamo dal primo punto. La legge 33/2023 individuava due percorsi paralleli ma allineati per la valutazione multidimensionale unica, con l’Inps come ente competente per la valutazione e perno nel Piano assistenziale individualizzato compilato da Ats e Asl. Come sottolineato da Fabrizio Giunco, docente di Medicina interna all’Università degli studi di Milano e membro della cabina di regia del Patto, il dlgs 29/2024, introducendo nuovi soggetti destinati alla vmu, «non semplifica il processo di valutazione ma lo rende ancora più frammentato, complesso e articolato».

Il dlgs 29/2024, introducendo nuovi soggetti destinati alla valutazione multidimensionale unica, non semplifica il processo di valutazione ma lo rende ancora più frammentato, complesso e articolato

Fabrizio Giunco

Insomma, in un settore dove era necessario fare sintesi e trovare un punto di caduta comune che permettesse di  semplificare la vita ad anziani (e i loro caregiver) snellendo tempi e burocrazia, il decreto attuativo ha combinato un mezzo pasticcio. «Sembra moltiplicare le valutazioni», ha detto Giunco, creando un caos normativo che disorienta il beneficiario del servizio. Su questo fronte, dunque, il Patto «guarda con speranza ai nuovi decreti attuativi, che si auspica vengano sfruttati come occasione di revisione critica delle anomalie del dlgs 29/2024».

Venendo al tema della prestazione universale per gli anziani, anche qui si può notare un disallineamento tra il dettato della legge e quello del decreto, tanto che Costanzo Ranci, professore ordinario di Sociologia economica al Politecnico di Milano e anche lui membro della cabina di regia del Patto, ha detto con una battuta che sarebbe più opportuno parlare di «prestazioni universali», al plurale. La proposta del Patto, recepita dalla legge 33/2023, concepiva la prestazione universale come un’integrazione dell’indennità di accompagnamento, che prima della riforma aveva tre punti di forza (è un diritto riconosciuto; ha un assetto universalistico; ha carattere di prestazione nazionale) e tre punti deboli (la discrezionalità nell’erogazione non garantisce equità di trattamento tra tutti i territori; è data in misura uguale indipendentemente dall’entità del bisogno creando così situazioni di iniquità; offre un trasferimento monetario senza vincoli di utilizzo che alimenta il mercato irregolare della cura e lascia soli i cittadini). 

La nuova prestazione universale

In questo quadro, la legge 33 interveniva con una riforma di questi punti deboli introducendo un sistema unificato e omogeneo di valutazione, prevedendo una graduazione dei benefici in relazione al bisogno e affiancando all’erogazione di denaro la possibilità di accedere ad alcuni servizi. Tuttavia, ha sottolineato Ranci, «il decreto ha tradito la legge», perché all’introduzione della prestazione universale non ha affiancato la riforma dell’indennità di accompagnamento.

Inoltre, la sperimentazione della prestazione universale è fortemente irrealistica nell’ambizione della universalità. Ad oggi la platea di destinatari, infatti, è molto limitata: possono accedervi solo gli over 80 con una disabilità gravissima, già titolari dell’indennità di accompagnamento e con un Isee fino a 6mila euro. Tradotto: 25mila persone in tutta Italia, solo l’1,5% di chi percepisce l’indennità. Una prestazione «tutt’altro che universale», ha commentato Ranci puntando il dito soprattutto contro il tetto reddituale inserito dal decreto. Il che, tra l’altro, non è l’unico problema: se dopo la sperimentazione la prestazione universale dovesse venire estesa a tutti gli anziani con disabilità grave, il costo passerebbe dai 250 milioni di euro l’anno attuali a oltre 10 miliardi. Risorse che non ci sono.

Qui Lombardia

In attesa dei nuovi decreti attuativi che si spera riordinino la materia a livello nazionale, le regioni procedono per la propria strada. In Lombardia, come ha spiegato Clara Sabatini, dirigente dell’Unità organizzativa rete territoriale del Pirellone, la rete dei servizi per gli anziani non autosufficienti si articola di tre tipi diversi di servizi ordinari (domiciliari, diurni e residenziali) cui vanno aggiunti quelli specialistici, che vanno dalla riabilitazione ai centri per i disturbi cognitivi e demenze. Una rete estesa che se da un lato ha permesso di aumentare sensibilmente il numero di anziani presi in carico dal 2019 a oggi, dall’altro rimane segnata da alcune criticità, prima fra tutte la mancanza di un vero e proprio piano di intervento strutturato specificamente sulle necessità della non autosufficienza. Proprio per questo, il nuovo Piano sociosanitario della Regione ha l’obiettivo di rimodulare la propria attività in modo tale da rispondere in maniera più adeguata alle esigenze del settore, accogliendo in sé un cambiamento che non è solo procedurale-amministrativo ma anche culturale nell’approcciarsi alla non autosufficienza, non guardandola più come un problema sanitario ma integrando gli aspetti sociali e di socialità della questione.

Foto di Pixabay

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