Politica

Riforma del Terzo settore: trenta pirlate non fanno un articolo

di Riccardo Bonacina

La rassegna stampa di questa mattina sull’approvazione alla Camera dei deputati della Legge delega di Riforma del Terzo settore, dell’Impresa sociale e del Servizio civile, è una sorta di fiera dei dilettanti allo sbaraglio. Roba da depressione pensando allo stato dell’informazione in questo Paese. Quel che penso della Riforma l’ho scritto e l’ho detto in questi mesi (qui l’editoriale su Vita magazine), concentriamoci ora su alcuni casi della Rassegna stampa odierna  che non si capisce se ispirati da malafede o da ignoranza, o le due cose insieme.

Cominciamo dal Corriere della sera, cartaceo, che nel sommario ad un articolo ordinato e abbastanza preciso di Alessandra Arachi (a pag. 26) confonde il 5 per mille con l’8 per mille. Mammamia!

Il Corriere.it, invece, riprende un articolo di Luca Mattiucci, responsabile di Corriere sociale. Si tratta di un articolo-collage di vari pezzi e dichiarazioni usciti in questi giorni, naturalmente senza citare gli originali. Il problema è che nell’ansia di prestazione, Mattiucci, che pesca di qua e di là, cita senza capire quel che cita. Ecco un esempio. Pescando senza capirne il senso da un articolo di Andrea Rapaccini (qui) scrive Mattiucci: “Se oggi chiunque può scegliere di finanziare un’impresa sociale recuperando un tasso di debito comunque non superiore al 21% (legge anti-usura), dopo la Riforma sarà possibile investire nell’impresa sociale “rischiando” il capitale. In altre parole se oggi finanziare una non-profit può equivalere a recuperare l’importo erogato, dopo la Riforma si potrà investire nel capitale dell’organizzazione equiparando ricavi e perdite esattamente come in qualsiasi profit. Un gioco pericoloso”. Caro Mattiucci, pericoloso è chi non capisce e non si sforza di capire.  Quel passaggio mal citato (anzi non citato) voleva spiegare che oggi a fronte della necessità di investimenti alle imprese sociali oggi sono percorribili solo due vie: la prima quella di trovare dei donatori a fondo perduto, la seconda quella di finanziarsi a debito, ovvero tramite mutui o bond bancari. Il finanziamento a debito non ha limiti di legge al lucro bancario se non le norme anti usura, il 21% del prestato appunto. Se questo è chiaro (chiaro?) allora non si capisce perchè non introdurre (come in tutta Europa) anche l’investimento con capitale di rischio con una remunerazione cappata di tale capitale, la delega parla dello stesso cap previsto per le cooperative. Per approfondimenti si veda il DLgs. n. 6/2003 che ha novellato l’art. 2526 c.c. Uffa, spero sia chiaro.

Il campione del giornalismo di inchiesta, poi, Il Fatto quotidiano, se ne esce con un articolo a firma di Salvatore Cannavò (ex deputato di Rifondazione comunista e vice direttore di quel che fu il suo quotidiano, Liberazione), che è una summa di idiozie e di retroscena fantasmagorici fondati sul “sentito dire”. “Da oggi si guadagna” recita il titolo, come se l’ipotesi di non dipendere più dagli affidamenti diretti da parte degli assessori e della politica fosse lo scenario peggiore. Remember Coop 29 giugno? Caro Cannavò il problema non è se l’impresa sociale si muoverà con più autonomia e indipendenza sul mercato dei beni e servizi pubblici (acqua, trasporti, beni culturali, turismo, ect), il problema è semmai se l’impresa sociale continuerà ad essere lo strumento di una brutale esternalizzazione da parte dell’ente pubblico delle funzioni del welfare. Che si guadagni è un bene se non si vuole un non profit schiavo della politica e del malaffare. Cito un passaggio a testimonianza della confusione mentale di Cannavò. Scrive “La torta è di circa 175 miliardi, corrispondenti alla spesa sociale non coperta da assistenza pubblica che potrebbe essere drenata nel giro di otto anni dalle nuove imprese sociali”. Caro Cannavò ma se oggi ammonta a 175 miliardi la spesa privata per l’asssistenza, non si è mai chiesto chi ci sta lucrando e chi ci lucrerà? Magari De Benedetti oppure i gruppi for profit con i canini lunghi lunghi. A lei va bene così? Va bene la privatizzazione del welfare a beneficio dei soliti noti? Non crede sia interessante, certo per chi vuole cambiare pezzi di economia e non si accontenti di prediche e prefiche, promuovere un vero mercato sociale in questi settori?

Ci si può consolare leggendo l’ottimo pezzo di Leonardo Becchetti su Avvenire che scrive: “Va apprezzato il tentativo di risolvere l’apparente dilemma della capitalizzazione (da una parte le attività massimizzatrici di profitto che non hanno problemi ad attirare nuovi capitali di rischio, dall’altra le attività sociali che fanno grande fatica ad attirarli) attraverso la ‘ibridazione’ delle organizzazioni di Terzo settore e l’apertura al capitale di rischio. È proprio questa la direzione più interessante della riforma che sembra anche evitare l’errore della rigida separazione tra un mondo profit socialmente ed ambientalmente irresponsabile e uno del non profit senza risorse proprie chiamato a riparare i guasti del primo dipendendo per il proprio funzionamento solo dalla generosità dello Stato, delle imprese o delle persone”. (Qui l’articolo completo).

Già ma Becchetti non è un giornalista.Possibile che nessuno di questi campioni abbia sottolineato come la Legge delega di Riforma sia stata condivisa da tutte le rappresentanze del settore oltre che da un migliaio di organizzazioni?

Karl Popper, ispirandosi al modello fornito dai medici e dalla forma di controllo generalmente istituita per la loro disciplina, proponeva che chiunque abbia a che fare con l’informazione di massa debba avere una patente, una licenza, un brevetto, che gli possa essere ritirato a vita qualora agisca in contrasto con certi principi. Ovvero con malafede e ignoranza, bisognerebbe pensarci per davvero.

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