Non profit

Riforma del Terzo settore? Le Regioni non si mettano di traverso

I governi regionali stanno adottando e facendo circolare statuti-tipo per APS ed ODV, e ciò sta creando non solo spaesamento tra gli operatori ma anche la possibilità che finiscano per essere figure non uniformi sul territorio nazionale

di Antonio Fici


Una speranza sottesa all’intervento riformatore del 2017 era sicuramente quella di elevare la nuova legislazione sul terzo settore a fattore di unità e coesione sociale, territoriale, economica, piuttosto che di separazione, discriminazione, divisione. Si volevano superare steccanti esistenti, e non già crearne di nuovi. Perché altrimenti dar vita ad una figura unitaria di “ente del terzo settore”? Perché dare riconoscimento ed impulso normativo alle Reti associative del Terzo settore? Perché rinvigorire le funzioni dei Centri di servizio per il volontariato e obbligarli alla “porta aperta”? Perché, sempre in materia di CSV, sostituire i COGE con l’ONC? Perché rimpiazzare i precedenti registri regionali con il Registro Unico Nazionale del Terzo Settore? Perché assegnare al Ministero del Lavoro funzioni di regìa relativamente al funzionamento del RUNTS e all’assolvimento dei controlli sugli ETS?

L’unità, peraltro, la si voleva realizzare nel rispetto delle diversità. Così, il legislatore, mentre promuoveva maggiore uniformità normativa, allo stesso tempo riconosceva ed incentivava le differenze. Insomma, uno dei principi-cardine della riforma era quello della “unità nella diversità”, che il legislatore cercava di attuare mediante un sano bilanciamento delle opposte esigenze. La prospettiva pluralistica emergeva infatti in una serie di scelte: la previsione, nell’ambito della figura generale dell’ETS, di sei distinte figure particolari di enti del terzo settore (ODV, APS, imprese sociali, ecc.); la distribuzione territoriale obbligatoria dei CSV, pur nell’esigenza di ridurne il numero complessivo rispetto al passato; l’articolazione dell’ONC in uffici territoriali denominati OTC, muniti di rilevanti poteri di controllo; il riconoscimento del ruolo delle Regioni (e delle Province autonome) sia nella tenuta del RUNTS che in sede di controllo sugli ETS. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi.

Perché dico e sottolineo questo? Perché mi sembra che da parte di alcuni attori a vario titolo impegnati nella riforma del terzo settore, e nella sua concreta attuazione, si stiano manifestando comportamenti tesi più a dividere che ad unire, in forte contrapposizione con lo “spirito” riformatore di cui ho sopra brevemente dato conto.

Questa mia impressione può essere supportata da una serie di dimostrazioni. Mi limito qui a fornirne soltanto una.

Essa ha a che fare col ruolo delle Regioni. Alcune di loro, com’è noto, stanno adottando e facendo circolare statuti-tipo per APS ed ODV, e ciò sta creando non solo spaesamento tra gli operatori (soprattutto tra quelli che sono associati a Reti nazionali le quali fanno dell’uniformità, anche degli statuti, un valore fondativo), ma anche la possibilità che APS ed ODV finiscano per essere figure non uniformi sul territorio nazionale (come invece voleva il legislatore della Riforma del 2017, superando il preesistente assetto normativo e la pluralità dei registri). Continueranno ad esistere una “APS ligure” ed una “APS laziale” tra loro diverse? Le ODV pugliesi finiranno per essere diverse da quelle laziali?

Sia chiaro: nessuno dubita dell’opportunità che gli enti pubblici, specie in questa fase transitoria piuttosto complicata, aiutino e sostengano il mondo del terzo settore a “digerire” la riforma ed attuarla nel migliore dei modi. Ma una cosa è suggerire altro è imporre. Perché imporre di fatto statuti-tipo (se è davvero questa la volontà implicita delle Regioni) non solo contraddice il quadro normativo post-riforma, ma costituisce una palese violazione dell’autonomia privata e della libertà associativa, costituzionalmente riconosciuta.

Da dove nasce questa mia preoccupazione? Dal fatto che le Regioni hanno presentato i loro statuti-tipo con parole e modalità tali da suscitare il dubbio che per esse, più che di modelli suggeriti, si tratti in realtà di modelli di fatto obbligatori.

Prendiamo l’esempio della Regione Puglia. Nell’allegato n. 1 alla determinazione dell’Assessorato al Welfare n. 223/2019, si legge infatti: “Al fine di semplificare il lavoro di adeguamento degli statuti e rendere omogenee le disposizioni su tutto il territorio regionale, il Tavolo regionale per l’attuazione della Riforma del Terzo Settore, ha prodotto due schemi di statuto, rispettivamente per le OdV e per le APS che si allegano alla presente per farne parte integrante e sostanziale”. Dunque l’obiettivo è (anche) l’omogeneità sul territorio regionale. Perché mai? Perché APS e ODV pugliesi dovrebbero essere tra loro omogenee e diverse rispetto alle APS e alle ODV dei restanti territori regionali? E a che conseguenze va incontro un’associazione che non intenda essere “omogenea” alle altre della propria regione? Sarà discriminata? Incorrerà in ostacoli e lungaggini durante il processo di registrazione del suo statuto?

Si deve allora qui sottolineare, a scanso di ogni equivoco, che qualsiasi comportamento ostruzionistico da parte delle Regioni fondato unicamente sul fatto che gli statuti delle associazioni non sono conformi ai loro statuti-tipo sarebbe evidentemente abusivo ed illegittimo. Così come lo sarebbe ogni discriminazione motivata dal fatto che un’associazione non adotti lo statuto-tipo “suggerito” dalla Regione. Gli enti con sede nella regione non dovrebbero dunque preoccuparsi di alcunché ed affrontare con la massima serenità e libertà questa fase di adeguamenti statutari. Guardare sì agli statuti-tipo regionali come possibili modelli di riferimento, ma non già come precetti insormontabili.

Tanto più, dispiace dirlo, quando questi statuti-tipo presentano evidenti errori!

Nell’allegato n. 3 della determinazione n. 223/2019, sopra citata, che contiene lo statuto-tipo di APS, si legge infatti, a proposito del Consiglio Direttivo, cioè l’organo di amministrazione della APS, che “Tutti i componenti devono essere scelti tra le persone fisiche associate ovvero indicate, tra i propri associati, dagli enti associati” (così l’art. 22, comma 2, dello statuto-tipo di APS della Regione Puglia). Peccato che nulla nel Codice del Terzo settore lo imponga! Perché con riguardo alle APS si applica la regola generale di cui all’articolo 26, comma 2, del Codice, secondo cui “La maggioranza degli amministratori è scelta tra le persone fisiche associate ovvero indicate dagli enti giuridici associati”. Mentre la Regione Puglia confonde ODV ed APS, perché la disposizione statutaria che “suggerisce” alle APS regionali è una regola inderogabile per le ODV (vedi art. 34, comma 1, del Codice) e non già per le APS!

Nota: gli statuti-tipo della Regione Puglia, cui ho fatto riferimento nel testo, sono disponibili https://pugliasociale.regione.puglia.it/dettaglio/-/file/68409?p_auth=Hs4QMiMR&p_p_lifecycle=1


*Antonio Fici è professore di Diritto privato nell’Università degli Studi del Molise. Avvocato esperto di enti non profit e terzo settore

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.