Lo spirito della riforma del terzo settore che il governo Renzi, su spinta e con l’approvazione pressoché unanime di una vasta parte del non profit, vuole portare avanti è chiaro. E lo sintetizza bene l’economista Stefano Zamagni quando dice che “occorre riconoscere al terzo settore una soggettività anche economica, liquidando una volta per tutte le teorie della marginalità che hanno fatto fin troppi danni”.
Così come Luigi Bobba ha chiarito bene che le specificità di ciascun pezzo del terzo settore devono essere salvaguardate. La partita si gioca su più livelli -impresa sociale, volontariato, associazionismo diffuso-, ma la palla rimbalza fra quattro angoli: il servizio civile, la riforma del codice civile e delle singole leggi, l’impulso all’impresa sociale -che è forse il tema con la riflessione più avanzata e dove le idee sono più chiare- e infine il ruolo dell’Autorità di promozione, garanzia e controllo di settore.
Discorso più complicato invece per il cinque per mille che rimane per ora un po’ più sullo sfondo -nelle linee guida non si parla ancora di stabilizzazione, ma di potenziamento- e fa parte della più vasta e generale questione delle risorse che è ancora da dipanare anche se il governo già avanza, dal punto 22 al 29 delle linee guida, una serie di proposte che da anni sono ferme o sottoutilizzate.
È la questione cruciale di questa riforma, non tanto e non solo perché per fare alcune cose servono soldi, e non pochi, ma perché le forme di finanziamento dei provvedimenti e delle azioni che dalla riforma scaturiranno sono cruciali per il futuro del terzo settore. E per capire in che modo l’impulso che arriverà modificherà il suo ruolo all’interno dei sistemi di welfare e più in generale nell’economia e nella società italiana.
Esempio lampante di questo bivio è il servizio civile universale: nelle linee guida di riforma del governo Renzi si quantifica il 100.000 la quota di giovani da far operare dentro alle organizzazioni, inserendo come opzione quella di stipulare accordi con soggetti locali, pubblici e privati, per facilitare l’ingresso dei volontari nel mercato del lavoro. Se si mantiene l’impostazione classica del servizio civile come sperimentata dal suo avvio, sarà chiaro che il costo di arrivare a 100.000 ragazzi in un anno sarà un costo molto alto, forse proibitivo. Se verrà chiesta, come è ipotizzabile, una compartecipazione di qualsiasi tipo agli enti locali e alle organizzazioni stesse, si aprirà una stagione diversa.
Che potrebbe anche centrare l’obiettivo di responsabilizzare maggiormente le organizzazioni rispetto al valore formativo e all’impatto del servizio civile. Perché, diciamocelo chiaramente, con l’idea di “tanto paga pantalone” in questi anni una quota non trascurabile di organizzazioni del terzo settore ha usato il servizio civile tradendo talvolta lo spirito dell’istituto. Questo esempio traccia in maniera abbastanza chiara la strada tramite la quale potrebbe essere risolto il nodo delle risorse, avviando un modello di terzo settore meno dipendente dal pubblico e più responsabile rispetto alle proprie modalità di finanziamento. Cosa che, peraltro, già accade in molti aspetti dell’attività quotidiana di queste realtà. E spesso non è facile, ma chi già ha differenziato e innovato le proprie forme di finanziamento potrebbe trovarsi facilitato.
Così come il tema dei voucher sociali è cruciale: sollecitato sui corto circuiti e le degenerazioni rispetto al loro funzionamento in Lombardia, Renzi ha risposto in maniera “democristiana” per sua stessa ammissione: “troviamo una via di mezzo, serve un meccanismo equilibrato”. Sullo sfondo rimane, per ora volutamente, un altro tema chiave che è il finanziamento al welfare locale e quello delle regioni che impatta una quota importante delle realtà del terzo settore: ridotto all’osso negli ultimi anni, ha bisogno pure lui di una scossa, e di risorse, per non degenerare.
Meno dubbi ci sono rispetto al finanziamento di alcune altre azioni come il potenziamento del cinque per mille: qua per cambiare le cose serve trovare le coperture, senza stare a girarci troppo intorno.
Matteo Renzi ha dimostrato di avere un’idea chiara del terzo settore -non solo perché lui lo chiama “primo” o perché lo conosce bene- e di aver superato l’impostazione troppo statalista o legata ad interessi specifici che la parte politica a cui si riferisce gli ha sempre dedicato. Ora serve trovare meccanismi di finanziamento stabili e sostenibili di questo mondo. Affrontando anche quello che lui stesso ha definito “un vero casino”, ovvero la giungla fiscale delle deducibilità e detraibilità. Dalla qualità di questo punto passa la credibilità e le possibilità di successo di questa riforma.
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