Politica
Riforma a settembre, perché prendere ancora tempo?
Gli aspetti critici del testo avrebbero dovuto essere già ben chiari nella testa dei senatori. I tre punti chiave secondo Carlo Mazzini, esperto di legislazione non profit
La notizia è appena arrivata: la discussione sulla riforma del Terzo settore non verrà votata dal Senato prima di settembre, nell’ipotesi più ottimistica. I senatori se la stanno prendendo comoda. A leggere Vita.it più per ragioni di equilibrismi partitici, che per reali necessità di approfondimento. Eppure il lungo inter di questa riforma alcuni punti su cui i senatori dicono di voler prendere tempo avrebbero dovuto essere già ben chiari nelle loro teste. Tenendo conto che siamo Ad ad un anno dalla trionfale – e un po’ pomposa, lo possiamo dire? – approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del disegno di legge delega.
Vediamo quali:
1. Terzo settore e non profit non sono la stessa cosa. No, non la sono. E da qui parte qualsiasi discussione destinata a finire nell’irrisolto: ma se l’impresa sociale è non profit, perché si dividono (questa è la proposta) gli utili, seppur in misura ridotta? Come dar torto a chi pone la domanda? Se i nostri rappresentanti sapessero che il non profit è contenuto nel Terzo Settore, ma che non tutto il TS risponde all’obbligo di non divisione di utili del non profit, capirebbero tante cose. A mio avviso, una volta distinti i due concetti la legge di riforma avrebbe la strada in discesa.
2. L’impresa sociale non è non profit e bisogna aprire una discussione su come far diventare questo strumento un motore di opportunità per un nuovo welfare produttivo (dove può essere produttivo, perché è lì il problema) oltre che alla portata di tutti. Benissimo il “cap” sulla distribuzione degli utili, benissimo attrarre nuovi capitali, tutto davvero molto bello. Io a questo punto darei priorità al tema dell’impresa sociale, scorporandola dal ddl della riforma e dedicando un ddl non delega (quindi scritto direttamente dai parlamentari) che in poco tempo salirebbe agli onori degli altari, cioè diventerebbe legge. Altro effetto positivo: parlando del ddl delega (sul non profit e non più sul terzo settore), parleremmo finalmente di enti non profit, dei loro problemi, di come si ritiene che una nuova legislazione meno arruffata e più coerente possa farlo crescere, e compagnia cantando. Vi sembra poco? Avete notato che ormai c’è un’identità – a livello mediatico – tra legge sull’impresa sociale (low profit) e legge di riforma? Separiamo davvero il grano dal loglio e distinguiamo i soggetti, Ne avranno beneficio tutti. Faccio notare che se davvero i parlamentari credono nell’impresa sociale, il ddl non delegato completerà il suo iter prima dell’uscita dei primi decreti delegati sulle altre materie del non profit.
3. L’Authority costa troppo? Assolutamente no! Ci sono più di 300 registri disseminati tra enti locali, prefetture e Direzione regionali delle Entrate. A tempo pieno, a voler star stretti, ci sono almeno 6/700 dipendenti pubblici che seguono enti non profit, decidono se possono iscriversi o meno nel registro, a quali condizioni possono rimanerci, cosa devono produrre in termini di documentazione. I racconti sulle folli richieste della burocrazia di chi, come me, segue un po’ di enti non profit superano Wodehouse nel campo del comico, King in quello dell’orrore, Ionesco nei profili dell’assurdo. Avere un’Authority unica con molto meno di 6/700 dipendenti (la Charity Commission ne ha 323 e funziona molto bene), vuol dire fare un salto di qualità notevole nella quantità e nella qualità del controllo del non profit permettendo alla comunità nazionale di potersi fidare della correttezza degli enti. Vuol dire anche non far dipendere il non profit (la sua regolazione, il suo controllo) da una struttura politica (quale è un Ministero). Quale migliore soluzione per abbandonare gli incubi di Mafia Capitale?
È davvero così difficile comprendere queste poche “soluzioni” win-win? O c’è qualcuno che teme di perderci qualcosa?
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