Politica

Rifare la sussidiarietà altro che taglio dei parlamentari

Nel 2001 i fautori della sussidiarietà cantavano vittoria con la Riforma costituzionale agli art. 118 e 119, ma purtroppo vent'anni di regionalismo ci hanno regalato 20 parlamenti e la proliferazione della casta su base regionale. Ora il parlamento romano ci chiama ad un nuovo appuntamento: tagliare i parlamentari romani, senza dirci nulla di come il 70% dei comuni italiani, quelli che hanno una popolazione inferiore ai 5 mila abitanti vengano tutelati da questo ulteriore taglio di democrazia rappresentativa

di Angelo Moretti

C’è un detto molto importante che inquadra il pericolo più drammatico dei giocatori d’azzardo: “il problema non è vincere o perdere, ma è tentare di rifarsi”. Il vero baratro non si scava alle prime perdite, ma successivamente alle prime vittorie, che confermano “l'opportunità di giocare”, a cui seguono inevitabilmente le prime perdite e da queste scatta il tentativo disperato e reiterato del giocatore di tentare di rifarsi, di riprendersi ciò che ha perduto, vittorie comprese.

Dall’osservatorio dei piccoli e medi comuni italiani, lo Stato Italiano sembra un giocatore d’azzardo alla disperata ricerca di una corretta applicazione del sistema di sussidiarietà orizzontale e verticale, e più cerca la vittoria più sembra che si allontani dal risultato.

Quando nel 2001 il parlamento varò la grande riforma del titolo V della Costituzione ed in particolare gli art. 117 e 118, invertendo le parti tra Stato e Regioni, affidando a queste ultime una potestà legislativa principale e generale a cui si sottraevano “solo” le materie che venivano espressamente riservate allo Stato (dalla difesa alla politica estera, l’immigrazione, la previdenza sociale, la legge elettorale, norme generali sull’istruzione e tanto altro) sembrava di aver guadagnato il primo jackpot per un cambiamento decisivo del paese. Il sistema paese avrebbe dovuto invertire la rotta della disuguaglianza delle chance ed offrire a tutti i territori regionali la stessa possibilità di costruire il proprio destino comunitario all’interno di una storia nazionale dettata dai principi della nostra Costituzione.

Nel 2001 i fautori della sussidiarietà cantavano vittoria. Alcuni dei miei figli sono nati molto oltre il 2001, sono cresciuti nella seconda decade del 2000, eppure non sentono affatto il parlamento regionale come un “loro parlamento”, come un “luogo della loro democrazia”, sono nati e cresciuti quando la potestà legislativa era in mano alla loro regione ma non hanno alcuna idea di dove si trovi questo parlamento su Napoli, hanno conosciuto alcuni nomi significativi solo in occasione del Covid . Conoscono bene i nomi che si sono alternati da Berlusconi a Renzi, hanno seguito la tensione dei porti chiusi e dell’ideologia Salvinista, hanno seguito come una serie TV gli appuntamenti con Conte la sera durante il lockdown, e sanno che l’apertura dei porti, la partenza della scuola, il lavoro del padre, il divieto di fumo nei locali, la non somministrazione di alcol ai minorenni, le regole sul gioco d’azzardo e sulla banda larga devono venire da quelle persone lì, quelle che gli adulti hanno votato e che sono al Parlamento, a Roma, quel luogo che un giorno hanno anche visitato con la scuola. Non solo i miei figli hanno questo “sentiment”. Chi deve iscrivere i figli a scuola superiore e non ha necessari fondi per i libri, chi aspetta il reddito di inclusione o di cittadinanza, chi attende che l’Ilva abbia un nuovo futuro come tutto lo sviluppo industriale italiano, chi lotta perchè Open Arms abbia un porto sicuro, perchè venga riconosciuta la protezione umanitaria a chi chiede asilo, chi sta calcolando gli anni per andare in pensione, chi sogna il dopo di noi di un figlio con disabilità, che aspetta la velocizzazione dei processi civili in cui è incagliato, o la possibilità di partecipare ad un concorso per una cattedra a scuola, non guarda a Napoli da Benevento, guarda ancora imperterrito a Roma, a volte finanche a Bruxelles.

Quando abbiamo ventuplicato i parlamenti qualcuno gridava vittoria perchè il cittadino poteva finalmente essere nelle condizioni di controllare l’agire politico ed amministrativo di un suo onorevole regionale, essendo questo più vicino al territorio in cui il cittadino abita. Ma sia la cronaca politica che la giurisprudenza amministrativa e penale ci raccontano di un ventennio in cui le caste politiche si sono rinforzate con la nuova veste dei consiglieri regionali, che guadagnano somme molto simili ai parlamentari romani, di scandali regionali che hanno affossato la sanità pubblica ed escogitato forme più volgari di corruzione e potere ( si ricordino i festini dei consiglieri della regione Lazio), di vicinanza alla criminalità organizzata ( le tante inchieste di collusione dalla Sicilia alla Lombardia, passando per Calabria e Abruzzo) , di Regioni sprecone invischiate in infrastrutture inutili oppure pagate e mai attivate (come in Veneto). La verità dei dati ci dice che i trasferimenti alla vera unità di prossimità, i Comuni, è andata via via sempre più assottigliandosi, con indici di disuguaglianze nei Livelli Essenziali di Prestazioni dei Comuni che hanno allargato la forbice della disuguaglianza tra territori poveri e territori ricchi, tra piccoli e grandi comuni.

La riforma del 2001 modificò anche l’art.119 di cui non si parla quasi mai nei dibattiti nazionali , istituendo il fondo di perequazione tra i Comuni. “La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Ma la storia non è andata così, la perequazione non ha funzionato, i comuni più piccoli e delle aree interne hanno continuato a perdere popolazione e gettito fiscale, e quindi servizi e sviluppo, la perequazione è avvenuta solo all’interno della perequazione orizzontale, quella tra i comuni, ma non è bastata. Come si legge nella relazione dell’audizione di IFEL alla Commissione parlamentare per l’attuazione della federazione fiscale, a marzo 2019: “Il totale delle risorse da sottoporre alla perequazione è limitato al totale delle capacità fiscali comunali, escludendo totalmente l’intervento erariale. Nel 2018 il totale dei fabbisogni standard ammonta a 35.148 mln di euro mentre il totale delle capacità fiscali è pari a 25.246 mln di euro”, quindi non ce la si fa senza il contributo effettivo dell’erario, ma non solo. Il peggio viene in questo passaggio dell’audizione: “L’impianto redistributivo del FSC (Fondo si Solidarietà Comunale) è stato realizzato impiegando i valori storici di erogazione dei servizi”.

In parole povere: i comuni che non hanno asili nido, ad esempio, non hanno speso i soldi degli asili nido e dunque nella distribuzione non gli verranno garantiti i trasferimenti semplicemente perché non hanno quella spesa nei “valori storici”. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: i piccoli comuni tendono a scomparire perchè la sussidiarietà non si è attivata a Roma, in quel Parlamento che avrebbe dovuto intervenire per far sì che un bambino di un piccolo comune campano avesse gli stessi diritti di un bambino lombardo, ai sensi dell’art.3 della Costituzione italiana.

Di fronte a queste sperequazioni il cui sistema correttivo evidentemente non ha funzionato in 19 anni di vigenza della riforma del titolo V, l’abitante di un piccolo o medio comune dovrebbe aspettarsi la solidarietà di chi? Quale dovrebbe essere il sistema sussidiario verticale a cui dovrebbe aggrapparsi di fronte alla evidente criticità di una sussidiairietà orizzontale che non gli consente di avere welfare e sviluppo ?

Diverse Regioni sono notoriamente alle prese con deficit e ritardi importanti in materia di sanità, acqua pubblica, ciclo dei rifiuti, welfare di comunità, ed i numeri della povertà educativa parlano di un incremento spaventoso e disuguaglianze insopportabili con il 10,7 % di neet ( giovani che non studiano e non lavorano); 1 milione 260 mila minori in povertà assoluta; il 53% di edifici scolastici privi di un certificato di agibilità; il 12, 5% di bambini 0-2 anni che hannol’effettiva possibilità di frequentare un asilo nido, con sperequazioni che vanno dal 24% dell’Emilia Romagna al 2% della Calabria ( come ha denunciato la rete di Nove Alleanze della società civile che porta il nome di “educazioni”).

Ora il parlamento romano ci chiama ad un nuovo appuntamento: tagliare i parlamentari romani, senza dirci nulla di come il 70% dei comuni italiani, quelli che hanno una popolazione inferiore ai 5 mila abitanti e che rappresentano il 20% della popolazione italiana ed il 51% del territorio, vengano tutelati da questo ulteriore taglio di democrazia rappresentativa. I cittadini dei piccoli comuni non hanno avuto nessuna vittoria vera successivamente al riforma del Titolo V, eppure questo giocatore sembra chiamarci di nuovo al tavolo delle puntate per “rifarsi” accelerando una riforma che non ha una vera prospettiva di senso e non ha mai veramente distribuito il jakpot ai cittadini ma solo agli apparati regionali.

Mentre i miei figli continuano a vedere cosa succede a Roma per capire il loro futuro e per capire in che paese vivono. Perchè dovrei tagliare il ramo della democrazia su cui sono appoggiati?

Il referendum sul taglio delle “poltrone” nasceva da un evidente movimento anticasta, ma ha agito come chi chiude il recinto quando i buoi sono scappati.

Sarebbe più utile mettere in discussione sul serio gli esiti di quella riforma del 2001, i cui limiti sono stati messi in bella mostra dall’evento della pandemia, ed iniziare ad aggiustare il tiro invece di completare definitivamente il quadro desolante di una sussidiarietà annunciata e mai praticata.

Chi non avrà più voce in capitolo sulle elezioni di Roma potrebbe perdere definitivamente il suo sentiment verso la democrazia rappresentativa del Paese, allargando la platea dei territori emarginati e degli assenteisti alle elezioni, con una sconfitta per tutti.

La riforma del parlamento non ha bisogno di tagli, ma di veri investimenti sul sentimento nazionale che leghi i nostri destini di fronte al fallimento di venti anni di regionalismo forzato.

*Referente della rete ComuniWelcame

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