Welfare

Riducete riducete Qualcuno lavorer

Due anni fa recitava il “de profundis” per il capitalismo. Oggi il teorico della “fine del lavoro” propone una via d’uscita alla crisi. Con orari ridotti, incentivi al Terzo settore, detassazione alle

di Andrea Bassi

Ègià passato poco più di un anno e mezzo da quando l?economista americano Jeremy Rifkin, con il suo libro ?La fine del lavoro? (ed. Baldini e Castoldi) riscosse una vasta eco nel dibattito politico e culturale italiano. Rifkin in un suo recente passaggio in Italia ha accettato di ritornare sulle sue teorie e provocazioni. Ancora una volta le riflessioni dell?economista, che si schiera decisamente a favore della riduzione dell?orario di lavoro a 35 ore, che punta sul non profit per combattere la disoccupazione e che caldeggia una tassazione degli utili delle imprese per finanziare il Terzo settore, sono destinate a muovere le acque. Professore, alcuni hanno rilevato un eccesso di catastrofismo nella sua lettura dell?evoluzione del sistema produttivo e del mercato del lavoro, tanto da definirla ?un pessimista?. Si discolpi. Io ho cercato, semplicemente, di dimostrare che per la prima volta nella storia dell?umanità è oggi possibile, a milioni di nuove generazioni, emanciparsi dall?obbligo del lavoro per vivere. La mia è una posizione realista. La rivoluzione prodotta dalla diffusione delle tecnologie cognitive ha realizzato un aumento enorme di produttività nel settore secondario dell?economia (manifatturiero, della produzione di beni) e in parte nel settore terziario (dei servizi). Tale crescita esponenziale di produttività riduce la quantità di lavoro umano necessaria per unità di prodotto rendendo così inutile l?apporto di milioni di lavoratori. Questa evoluzione (?La fine del lavoro?) non è di per sé negativa, anzi, è al contrario una grande risorsa e opportunità per l?Occidente, tutto dipende da come si intenderà gestire politicamente i risultati dello sviluppo economico. È singolare che l?ultimo stadio di sviluppo del sistema capitalistico produca più disoccupazione e differenze sociali e non, invece, più tempo libero e migliore qualità della vita. Eppure, intorno al tema della diminuzione dell?orario di lavoro c?è grande discussione e polemiche? Polemiche che non capisco. Sia la prima rivoluzione industriale, quella del vapore, che la seconda rivoluzione industriale, quella dell?energia elettrica, si sono manifestate in una enorme riduzione della forza lavoro manuale necessaria al processo produttivo. Ciò si è tradotto nella condivisione di tutta la società dei frutti, dei benefici, attraverso la riduzione costante e progressiva della settimana lavorativa (si è passati dalle 80, alle 70, alle 60 ore la settimana, e così via fino alle 38/40 attuali) nonché attraverso l?introduzione di garanzie per i lavoratori. Oggi la questione che si pone ai decisori economici è la seguente: come garantire una capacità di acquisto da parte dei consumatori tale per cui sia in grado di assorbire la quantità di beni prodotti? L?unica soluzione razionale che abbiamo a disposizione è quella di allargare la base dei consumatori e questo può essere fatto solo garantendo al maggior numero possibile di persone un lavoro dignitoso. Questa prospettiva comporta l?adozione generalizzata della riduzione dell?orario di lavoro su scala mondiale (o almeno nei Paesi sviluppati) a 35 ore la settimana e progressivamente a 32 a 30 a 25, in modo che un numero sempre maggiore di persone possano accedere al mercato del lavoro. Facile a dirsi, ma con quali politiche governare questa nuova fase di sviluppo del sistema capitalistico? In primo luogo occorre che i datori di lavoro riducano la settimana lavorativa, in secondo luogo essi dovranno assumere più forza lavoro per far fronte al fabbisogno creato dal minor tempo lavorato dai propri dipendenti, in terzo luogo questo deve avvenire a parità di salario (pagando cioè l?intera settimana lavorativa) o anche con aumenti salariali. Ciò ovviamente nel breve periodo provocherà dei costi per le imprese, allora il quarto stadio del circolo virtuoso prevede l?intervento del governo che dovrà offrire sgravi fiscali a chi ha adottato queste politiche (al fine di consentire loro di sostenere la competitività su scala mondiale). La perdita iniziale per lo Stato, dovuta alla diminuzione del gettito fiscale, sarà ampiamente ricompensata dai contributi fiscali versati dai nuovi lavoratori entrati nel sistema produttivo. Ma soprattutto sarà il mercato (gli imprenditori) a beneficiarne in quanto avranno nuovi consumatori per i propri prodotti. In Italia vi è una forte resistenza da parte del mondo produttivo e anche da alcuni settori del sindacato ad adottare tali soluzioni. Cosa risponde a questo scetticismo? Rimango sempre sorpreso del fatto che i dirigenti delle grandi imprese multinazionali non comprendano che i loro lavoratori non sono solo delle risorse da sfruttare, ma sono i loro principali clienti e cosa ancor più importante i loro principali finanziatori (investitori, fornitori di capitale) tramite i fondi pensione. Io credo comunque che l?Italia e la Francia siano oggi i Paesi più avanzati dal punto di vista delle politiche del lavoro, e degli strumenti per affrontare la terza rivoluzione industriale. Vedrete che nei prossimi anni (io stimo al massimo cinque anni) tutti gli altri Paesi sviluppati seguiranno il loro esempio. L?adozione della settimana lavorativa a 35 ore, le misure per lo sviluppo di nuova occupazione nei settori di cura, culturale e artistico, ambientale, della qualità della vita, della lotta al degrado urbano, gli incentivi per le piccole e medie imprese per favorire uno sviluppo economico nelle aree meno sviluppate (vedi il Sud Italia), sono tutti strumenti e scelte politiche che vanno nella direzione da me indicata. Quindi, se venissero adottate queste politiche il problema della disoccupazione sarebbe risolto? No, purtroppo il modello capitalistico è stato talmente di successo che ci ha liberato dalla necessità del lavoro. Anche se si riducesse la settimana lavorativa a 25 ore non ci sarebbero abbastanza posti per accogliere i milioni di giovani che si affacciano sul mercato del lavoro (anche in possesso di titoli di studio elevati). Ricordo che ci sono solo quattro ambiti in cui si può trovare lavoro: il settore pubblico, il mercato, la criminalità organizzata e il Terzo settore. Le prime due sfere stanno restringendo la loro capacità di assunzione di forza lavoro. Allora rimangono solo due alternative. Badate bene che ovunque nel mondo la criminalità organizzata è l?unico datore di lavoro in crescita, e sta diventando il principale fornitore di posti di lavoro. Il Terzo settore è quindi l?unica alternativa civile per garantire società democratiche. Esso però può costituire anche la principale risposta al problema della disoccupazione di massa nei paesi sviluppati. Come finanziare queste nuove spese? Basterebbe tassare una piccola quota (il 5 per cento) dei guadagni prodotti dagli aumenti della produttività, che fino a oggi non sono stati ridistribuiti, e indirizzarla al sostegno di iniziative di Terzo settore. È solo il Terzo settore che produce capitale sociale. Cioè quella dose minima di fiducia, di risorse comunitarie su cui si fondano sia lo Stato che il mercato come istituzioni sociali. In realtà il termine Terzo settore è fuorviante perché si dovrebbe parlare più correttamente di Primo settore, in quanto storicamente la comunità, la società civile, vengono prima dello Stato e del mercato. Non conosco nessun esempio nel mondo in cui uno Stato o un mercato siano sorti prima della comunità. La prima cosa che fanno gli uomini quando si mettono insieme è creare una comunità locale, che poi si allarga dando vita alla società ed è solo in una fase tarda, in uno stadio di sviluppo avanzato che emergono uno Stato prima e un mercato poi. *direttore dell?Iref (Istituto ricerca e formazione)


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