Politica

Ridar voce ad Adriano Olivetti

di Riccardo Bonacina

Nell’ottobre 1908 nasceva la società in accomandita semplice Ing. Camillo Olivetti & Co. Sono passati 100 anni da quando iniziò quel sogno industriale e sociale che si identificò sino al 1960 nelle biografie di Camillo prima, e poi di Adriano. Quella di Adriano Olivetti, fu una esperienza unica nel capitalismo italiano e internazionale, perché si basò su una concezione dell’impresa e del lavoro che lui stesso definì così: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi fini semplicemente nell’indice dei profitti? O non vi è, al di là del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una trama ideale, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?»

La biografie di Camillo e Adriano, i loro sogni e debolezze, le loro conquiste e i loro scacchi, ci sono restituite proprio in questi giorni al Piccolo di Milano, in due spettacoli di Laura Curino e Gabriele Vacis. Vero esempio di teatro civile e popolare, semplice, capace di raccontare e di far rivivere ciò di cui racconta. Che strano effetto veder sul palcoscenico Adriano Olivetti riprender parola e vita, sangue e colore. Ce ne sarebbe così bisogno oggi.

Sullo slancio di Laura Curino, voglio proporvi  un passaggio di uno scritto di Adriano pubblicato nel 1956 ad uso interno al Movimento di Comunità e da noi pubblicato in Communitas (n. 17 del settembre 2007), “Tracce di comunità” (per saperne di più). Così, per risentire la sua voce e i suoi ragionamenti, così attuali.

Gli amministratori, i tesorieri ciechi nella contemplazione e nell’adorazione delle cifre e dei numeri, hanno ripreso il comando dimenticando le persone. Ma il denaro che queste cifre rappresentavano era pur destinato a dare finalmente lavoro e a sprigionare con il lavoro nuova vita ad un popolo nuovo. Lo sforzo tecnico dello Stato è ancora importante, ma esso non vede la vita sociale dell’uomo, quella che potrebbe strapparlo all’isolamento e ad ogni forma di decadimento morale, e in definitiva farne un uomo nuovo, conferendogli nuova dignità.
Ma c’è un’altra ragione che ci fa riporre le nostre speranze e quelle del popolo italiano in un’azione diversa, in un’azione autonoma; gli è che la società nuova si crea solo attraverso delle formule nuove che sono personalistiche e comunitarie e il personalismo comunitario non si attua aggiungendo una croce, sia pure quella di Cristo, alle bandiere rosse della rivoluzione proletaria, ma si attua creando giorno per giorno i nuovi organismi, nelle comunità, nelle fabbriche, nelle regioni. Nuovi organismi che siano la espressione di un cristianesimo sociale intimamente sentito e che tragga dalle sue premesse teoriche adeguate conoscenze pratiche.
Perché, altrimenti, andando di questo passo lo Stato diventa attraverso i Partiti, l’arbitro assoluto dei destini dell’individuo perché esso tratta gli individui come mezzi per raggiungere dei fini. Ogni uomo, anche il più povero, il più debole, non può appartenere allo Stato. Affinché la persona sia libera e riesca a possedere un valore spirituale assoluto, infinitamente più importante e infinitamente più alto di ogni valore dell’ordine economico e politico, occorre che lo Stato esista per l’uomo e non già l’uomo per lo Stato. Il largo intervento dello Stato negli anni recenti ha forse portato a stabilire un uomo nuovo? Si è dato, è vero, a migliaia di contadini della terra e una casa. Si è data a migliaia di operai un’abitazione spesso molto migliore di quella che prima occupavano. Ma tutto questo è rimasto estraneo alla vita interiore, perché a questi pur nuovi organismi, connessi con la bonifica, la riforma, l’edilizia popolare, non si è dato un cuore affinché gli animi potessero pulsare fiduciosi verso un comune ideale. L’uomo sembra insediarsi come ospite provvisorio, non partecipa in forme democratiche nuove, in forme esemplari di vita associata alla sua emancipazione e alla sua liberazione”.

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