Non profit

Ricerca scientifica Largo al non profit

Mentre parte la grande riforma, il professore che dirige la task force sulla scienza scommette sul privato sociale. «Col suo contributo colmeremo il ritardo dagli stranieri»

di Marco Piazza

Il non profit che fa ricerca, quello che studia le malattie rare, che lotta contro il cancro o contro l?Aids, lo stesso settore che tanto faticosamente è riuscito ad inserirsi tra i ?beneficiari? della legge sulle Onlus, avrà un ruolo di primaria importanza nella nuova organizzazione della ricerca scientifica italiana. Non è, o quanto meno non sembra essere, la solita promessa demagogica. Piuttosto un impegno bello e buono preso – proprio nei giorni in cui il consiglio dei Ministri esamina il primo decreto legislativo che di fatto dà il via alla grande riforma – da Giuseppe Tognon, sottosegretario al ministero dell?Università e della Ricerca, il professore voluto da Prodi a capo della task force del comitato dei ministri per le politiche della ricerca e dell?innovazione.
Professor Tognon, quali sono le novità della vostra riforma?
«Posso riassumere il tutto in tre punti. Il primo è il tentativo di armonizzare i piani e i programmi dei singoli enti di ricerca (università, amministrazioni, fondazioni, industrie) con il programma nazionale triennale (Pnr). La seconda novità sta nel dotare il Pnr di un fondo integrativo speciale per interventi di importanza strategica. Un fondo il cui importo verrà stabilito all?interno del documento di programmazione economica e finanziaria. Il terzo punto riguarda la consulenza scientifica, che sarà affidata ad un comitato di nove esperti nominati dal presidente del Consiglio, a una assemblea della scienza (di cui faranno parte rappresentanti della comunità scientifica, delle amministrazioni, delle imprese e delle forze sociali) che assicurerà la ?democrazia dal basso? e infine da un comitato di valutazione della ricerca, composto da sette membri (anche stranieri) che avrà il compito di promuovere tecniche e metodologie nuove nella valutazione dei progetti scientifici».
Come si può recuperare il ritardo nei confronti degli altri Paesi industrializzati?
«In Italia abbiamo un deficit di investimenti e di resa degli investimenti nella ricerca, sia da parte del pubblico che del privato. Non possiamo sperare di competere su tutto con gli altri Paesi industrializzati, ma esistono settori in cui siamo in grado di eccellere, come la farmaceutica e la ricerca biomedica. Mentre non siamo competitivi nel settore industriale, possiamo invece primeggiare nella ricerca fondamentale».
Vuol dire che l?Italia è destinata ad essere per sempre soltanto un popolo di inventori?
«Ormai le farmaceutiche sono industrie sovranazionali. Ma i cervelli, quelli li abbiamo. E dobbiamo convincerli a lavorare con noi. In questo senso il contributo del non profit può essere enorme. Gli enti che fanno ricerca scientifica senza fine di lucro ricevono donazioni dai cittadini. Per far sì che questi continuino a fare beneficenza devono mostrare risultati immediati. E quindi devono privilegiare la ricerca fondamentale, che può essere applicata dovunque».
Eppure, continuando a fare paragoni con l?estero, anche la ricerca non profit, in Italia, è indietro anni luce.
«All?estero non è più avanti la quantità né la qualità della ricerca del privato sociale, è più avanti l?organizzazione del settore».
Eppure, quando si è cominciato a organizzare il settore, come nel caso della legge sulle Onlus, la ricerca non profit ha rischiato di essere estromessa.
«Perché in Italia si sottostima l?importanza della ricerca. Manca una cultura scientifica. E l?esperienza di quella legge è servita per far uscire allo scoperto questo limite».
Una parola sul caso Di Bella: sarebbe potuto accadere in America?
«Certamente no. Ma non è detto che sia un male. In fondo noi italiani, oltre che disorganizzati ci siamo dimostrati anche molto sensibili nei confronti del dolore e della malattia. E il cuore ci vuole. Anche nella ricerca».

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