Sustainability portrait

Io, gli imballaggi e la Lavanderia del Papa

Dalla ricerca e sviluppo alla comunicazione istituzionale, con il fil rouge dell’impegno a «cambiare la vita delle persone». La nuova puntata della rubrica sui manager della sostenibilità è un vero e proprio viaggio con Riccardo Calvi di Procter & Gamble. Tra i ricordi degli inizi e alcune delle iniziative più importanti messe a segno con l'azienda

di Nicola Varcasia

L’azienda per cui lavora è abituata a parlare attraverso i suoi marchi. Stavolta, però, parla lui. Riprercorrendo con VITA la sua carriera in Procter & Gamble. Un itinerario umano e professionale ricco di aneddoti, intuizioni e di scelte complesse. Ma il dialogo a tutto campo con Riccardo Calvi, direttore comunicazione istituzionale per l’Italia della multinazionale, non è rivolto al passato, anzi.

Nell’era del lavoro che cambia, lei è rimasto sempre nella stessa azienda. Come ha fatto?

Sono nato e cresciuto professionalmente in P&G, a settembre saranno 33 anni. La mia è una carriera sui generis: oggi mi occupo della parte comunicazione istituzionale, ma la storia è lunga…

Siamo nella rubrica giusta per riassumerla.

Da perito chimico, ho trascorso i primi 11 anni nella ricerca e sviluppo, in particolare nel packaging, dove sono arrivate anche le prime soddisfazioni.

Nel suo palmares ci sono due “Oscar dell’imballaggio”.

Li ricordo con soddisfazione. Il primo è stato sul Caffè splendid, all’epoca di proprietà di P&G. Non si usavano ancora le cialde e così inventammo un sacchetto speciale che si richiudeva con un coperchio incluso nella confezione. Questo evitava di dover usare la classica molletta o di dover travasare il caffè macinato in un altro barattolo, facendo perdere l’aroma. La soluzione piacque tantissimo. È un riconoscimento al quale ho contribuito marginalmente essendo appena arrivato in azienda per cui il grande merito va ai colleghi più senior dell’epoca.

Il secondo riconoscimento?

Lavoravo con i marchi Mastro Lindo e Viakal e, per quest’ultimo, ho avuto il piacere di inventare la prima bottiglia con un contenuto di plastica riciclata del 25%, che valse un altro premio. Ma il segreto lo voglio svelare subito per non prendermi troppi meriti: nel nostro settore siamo l’azienda che investe maggiormente al mondo di ricerca e sviluppo.

Dopo com’è andata?

Ho cominciato a lavorare sulla candeggina Ace. Oggi è un marchio gestito da Fater, una joint venture di P&G con Angelini industires, allora era solo nostro e io mi sono occupato di avviare nuove linee di produzione in Messico, Sud Africa, Marocco, Russia, Spagna, Grecia e Portogallo.

Insomma, faceva la sua bella carriera.

Però l’altra mia grande passione erano da sempre la comunicazione e il giornalismo. Prima ancora di entrare in azienda scrivevo di sport, lavoravo in radio e conducevo un programma di calcio sull’emittente locale Rete oro.

Ci avviciniamo alla svolta?

All’inizio degli anni Duemila, emergeva il bisogno delle persone di sapere chi c’è dietro il prodotto che compra. Così anche P&G, che ha sempre parlato solo attraverso i suoi marchi, ha iniziato a sviluppare la comunicazione istituzionale. Un collega mi segnalò una ricerca interna di qualcuno che conoscesse il mondo dei media e, insieme, l’azienda. Decisi di propormi.

Sembrava un lavoro fatto apposta per lei.

Soprattutto grazie alle persone che lo stavano costruendo, in particolare al direttore della comunicazione, Luca Virginio, uomo straordinario, un vero visionario del settore, scomparso prematuramente. Fu lui a chiamarmi, raccogliendo un appunto lasciato dalla precedente direttrice che, nel frattempo, aveva cambiato azienda. Ci vollero altri quattro mesi, il tempo di organizzare la divisione corporate, poi l’avventura prese il via, strutturandosi fino all’organizzazione attuale che ho l’onore di guidare.

Come è legato alla sostenibilità quello che fa oggi?

La bellezza delle iniziative che realizziamo riempie di concretezza la missione di P&G: migliorare la qualità della vita delle persone. La nostra comunicazione corporate è orientata i temi della sostenibilità.  

Rispetto ai tempi del packaging, ora lei “confeziona” progetti solidali?

Lo spiritocreativo e praticoè rimasto quello. Con P&G per l’Italia abbiamo costruito un programma di cittadinanza d’impresa che abbraccia tutte le nostre attività nell’ambito della sostenibilità ambientale e sociale, individuato le aree in cui ritenevamo che il nostro Gruppo potesse fare la differenza: lavoro, salute delle donne e prevenzione, ambiente ed educazione delle nuove generazioni e degli adulti.

Ci fa un esempio?


Con Annalisa Corrado di AzzeroCo2, agenzia partecipata da Legambiente e Kyoto club, abbiamo creato 23 Ortofrutteti solidali in Italia. Sono coltivazioni di alberi da frutto e ortaggi gestiti da comunità di persone bisognose –  migranti, rifugiati, italiani che hanno perso il lavoro, donne uscite da percorsi di violenza e disagio – che vendono i prodotti ricavandone un sostengo economico.

E in campo educativo?

Entro il 2024 contribuiremo a realizzare più di 60 Aule natura in altrettante scuole. Con il nostro supporto, il Wwf riqualifica cortili o spazi inutilizzati negli edifici scolastici creando vere e proprie aule all’aperto, fino a 200 metri quadrati, dove i bambini possono imparare e crescere dentro la natura.

Ha parlato anche di lavoro.

Con l’associazione Next, abbiamo creato il progetto Aula 162, con un esplicito richiamo a quel paragrafo dell’enciclica Fratelli tutti in cui il Papa afferma che non c’è peggiore povertà di quella che priva l’uomo della dignità del lavoro. Promuoviamo la riqualificazione professionale per migranti, rifugiati, neet, italiani disoccupati formandoli nell’ambito della logistica.

Perché proprio la logistica?

È una storia nella storia anche questa. Next è l’estensione a livello nazionale del progetto creato nel 2017 da Number 1, azienda leader nella logistica in Italia e rivolto proprio alla riqualificazione lavorativa di persone con varie fragilità o bisogni. La loro idea di far crescere quell’associazione si sposava perfettamente con l’esigenza di completare una nostra iniziativa avviata anch’essa nel 2017: la Lavanderia di papa Francesco.

Che cos’è?

Un progetto semplice, ma di grande efficacia, che ha la sua genesi nel 2015, quando il Santo padre decise di aprire la barberia sotto il Colonnato. Leggendo per caso la notizia, ci è sembrato doveroso che la nostra azienda, che tra i suoi marchi ha Gillette, si proponesse di fornire gratuitamente il kit della rasatura. In modo molto naturale, persino un po’ naif, ho avuto il piacere di conoscere l’elemosiniere del papa, cardinal Konrad Krajewski (all’epoca arcivescovo) che gestiva queste attività, e di consegnare personalmente al Santo Padre, primo tra i servitori, uno dei nostri kit.

Ma non vi siete fermati.

Proseguendo il dialogo con padre Konrad su come migliorare l’iniziativa, abbiamo capito che sarebbe stato bello creare un luogo in cui le persone potessero riconquistare la propria dignità con l’igiene personale, indossando di nuovo gli indumenti con cui i bisognosi arrivavano, senza doverli buttare via ogni volta. Occorreva dunque lavarli e noi ci sentivamo naturalmente implicati in questo, con tutti i nostri prodotti dedicati al bucato e alla cura della persona da donare. Dopo il Giubileo della misericordia del 2016 il Papa voleva consegnare un lascito concreto e duraturo alla città e così, nell’ex ospedale San Gallicano, dove opera la Comunità di Sant’Egidio, abbiamo dato il via alla prima Lavanderia di papa Francesco di Roma. Sono seguite quella di Genova, Torino e Napoli. La prossima aprirà a Catania e poi a Parma.

Concludiamo la panoramica con lo sport.

In vista delle Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 ma già con le prossime di Parigi 2024, in qualità di sponsor del Comitato Olimpico Internazionale, abbiamo dato il via al progetto Campioni ogni giorno, col quale ci poniamo l’obiettivo, insieme a nostri partners, di stimolare e favorire l’accesso allo sport dei ragazzi con disabilità. Presenteremo a breve un pacchetto di iniziative che mirano a rendere il Paese più accessibile e inclusivo da questo punto di vista, cercando di aiutare le persone e in particolare i ragazzi con disabilità che oggi faticano persino a cercare le strutture per poter fare sport.

Qual è il filo che lega tutte queste iniziative?

La strategia di un gruppo complesso come il nostro, per essere coerente, parte ciò che esso può fare direttamente per allargarsi lungo le possibili sfere di influenza della sua azione. Quindi, anzitutto ridurre le emissioni degli stabilimenti e sviluppare prodotti che riducono l’impatto ambientale. In secondo luogo, impegnare risorse nella ricerca e sviluppo per creare prodotti capaci di stimolare comportamenti virtuosi nelle persone che li usano.

Ad esempio?

Non tutti sanno – è un dato scientificamente provato dagli studi di Life cycle assessment – che nel lavaggio del bucato la componente che incide di più sull’ambiente è la temperatura di lavaggio, ancor prima degli ingredienti. Producendo detersivi che lavano anche a freddo mettiamo le persone in condizione di essere più virtuose nel loro comportamento.

Poi?

Il passo successivo è quello di comunicare in maniera adeguata questa possibilità. Non solo con le pubblicità di prodotto, che sono il nostro core, ma anche con programmi di educazione al consumo.

Quanto contano le partnership con il Terzo settore?

Sono importantissime. Essere buoni cittadini d’impresa significa lavorare su pilastri come la sostenibilità sociale, ambientale e l’inclusione. Per noi non è concepibile pubblicizzare il detersivo che lava “più bianco che più bianco non si può” se i nostri dipendenti non si sentono liberi di esprimere se stessi e la loro identità o se in azienda non si respira piena parità tra uomini e donne. Ma la promozione di questi valori, sia internamente che esternamente all’azienda, non può realizzarsi se non con dei partner. Non esistono aziende virtuose, ma sistemi virtuosi dove si collabora: l’azienda con le risorse che può mettere a disposizione, il partner con l’esperienza su quel tema.

Cosa ha imparato in questi anni curando progetti corporate dal grande valore sociale?

Entrare in contatto con le persone che vivono per strada mi ha fatto capire quanto sia labile il confine tra noi che siamo più fortunati e loro. Allo stesso tempo, quando ho visto che con un progetto nato anche dal mio lavoro accadeva qualcosa di bello, ho capito di poter riempire di concretezza la missione dell’azienda in modo tangibile e vero. Sentire la fiducia dell’azienda per questi progetti è un coronamento del desiderio che nutrivo fin da ragazzo di lavorare per aiutare la vita delle persone ed è anche un motivo di felicità e orgoglio che condivido con i colleghi che lo rendono possibile ogni giorno.

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