Economia

Riaprire l’agenzia per il Terzo settore

L'economista analizza la situazione del Non profit italiano dopo l'Action Plan europeo per l'Economia sociale. Un quadro che impone due innovazioni: passare dalla sussidiarietà verticale a quella circolare, come copragrammazione e coprogettazione impongono, e dar vita a una nuova rappresentanza di forum deliberativi su base territoriale. Rifondando l'organismo che, nel 2012, il Governo volle sopprimere

di Stefano Zamagni

Che il Terzo settore si trovi oggi a un punto di svolta è qualcosa da tutti riconosciuto e accettato. La recente approvazione da parte della Commissione di Bruxelles dell’Action Plan europeo per l’Economia Sociale ne è chiara dimostrazione. Cosa implica questa presa d’atto?
Giuliano Amato su Vita ha in più occasioni sollecitato il Terzo settore a “farsi carico” della politica. Una sollecitazione importante, che coglie nel segno.
L’idea che la politica inizi e si esaurisca tutta dentro le istituzioni democratiche è un’idea hobbesiana che nasce a metà del 1600, quando sorgono gli Stati nazionali dopo la pace di Westfalia.

Un secolo dopo, Hegel teorizzerà che solo lo Stato è il custode della “verità” e che quindi tutti gli altri soggetti devono adeguarsi ad esso. È lo Stato che dà forma alla rappresentanza. Questo modo di pensare la politica non prevede la partecipazione in senso proprio, anzi di fatto non ammette uno spazio autonomo per il Terzo settore. Non si pensi che si tratti di uno schema del passato, perché dentro a questo quadro si è operato fino a tempi recentissimi. L’aumento dell’Iva alle associazioni e al non profit prevista nell’ultima legge di Bilancio e la decisione di Governo e Parlamento di non cancellare questa norma, ma semplicemente di rinviarla di alcuni anni è dello scorso Natale, dicembre 2021. Di fatto il messaggio del Palazzo è stato: voi del Terzo settore fate, parlate, protestate, sbraitate, ma alla fine decidiamo noi. Punto e basta. Hobbes avrebbe acconsentito: la intrinseca politicità della società civile organizzata va annullata o quanto meno ricondotta entro l’alveo delle istituzioni. Qual è dunque il nuovo orizzonte che va costruito? Esso si realizza con il superamento della prospettiva hobbesiana. La logica di una politica tutta condensata nelle istituzioni non tiene più. Non perché le istituzioni rappresentative abbiano perso la loro funzione politica, ma perché ormai la politica si genera anche entro altre configurazioni e in altri luoghi, quelli del Terzo settore in primis. Se non prendiamo atto che la sistematizzazione hobbesiana non ha più senso ed è superata dai fatti, non riusciremo mai a dare al Terzo settore le ali di cui ha necessità per librarsi in aria, a vantaggio dell’interesse generale.

La contemporaneità ci chiama ad elaborare una logica per così dire neorinascimentale. Nel Rinascimento lo Stato non esisteva, ancora, ma questo non significava che le decisioni non venissero prese in modo partecipato. Le dinamiche erano diverse. Muovere passi verso una prospettiva neorinascimentale significa determinarsi ad introdurre radicali innovazioni sociali.

Due innovazioni necessarie

La prima: passare, con la necessaria gradualità, da pratiche di sussidiarietà orizzontale a pratiche di sussidiarietà circolare. Il presupposto filosofico-politico della sussidiarietà orizzontale è ancora hobbesiano: lo Stato decide il da farsi e ne affida poi l’esecuzione ad altri soggetti, gli enti di Terzo settore, sulla base di schemi quali accreditamento, convenzione, bandi di gara. Questo modello oggi è fuori tempo.

La coprogrammazione e la coprogettazione di cui al Codice del Terzo settore postulano la sussidiarietà circolare. Qualcuno, pochi a dire il vero, ne sta traendo anche conseguenze pratiche: il comune di Bologna, per esempio, ha creato un consigliere delegato alla sussidiarietà circolare, proprio con tale denominazione. Siamo agli inizi, ma il dado è tratto. Quel che va ribadito è che senza sussidiarietà circolare mai si potrà passare da un welfare delle condizioni di vita (quello attuale) ad un welfare delle capacità di vita.


Seconda innovazione: affrontare una volta per tutte il nodo della rappresentanza del Terzo settore. Se voglio che il Terzo settore svolga un’azione politica (ma non partitica, beninteso) esso deve avere una sua rappresentanza. Si tratta di decidere il tipo di rappresentanza. Il modello di riferimento non può essere quello della rappresentanza degli interessi, come il sindacato o le organizzazioni di impresa. Occorre mirare ad una rappresentanza di identità. È questa la parola chiave: una rappresentanza capace di dare voce a una pluralità di soggetti, ciascuno portatore di una sua specifica identità. Come realizzarla? Dando vita a forum deliberativi su base territoriale. Come si sa, i forum deliberativi sono lo strumento principale della democrazia deliberativa, un modello di democrazia di cui in Italia è quasi vietato parlare.
Una terza innovazione è quella che concerne l’arte della coprogettazione e della coprogrammazione.

Ho detto arte a ragion veduta. Non si tratta, infatti, di imparare una tecnica o un mestiere, ma di enucleare una visione dalla quale far discendere progetti specifici. Un progetto non è la stessa cosa di una proposta. Ora, se la pubblica amministrazione ha poco interesse a giocarsi questa partita, per il Terzo settore è un’urgenza assoluta. Altrimenti si troverà impreparato nel momento in cui si apriranno i tavoli del confronto istituzionale. Il che sarebbe un clamoroso autogol. Occorre scongiurare il rischio che coprogrammazione e coprogettazione vengano a configurarsi come una mera innovazione amministrativa e non invece come una grande innovazione sociale.

Riaprire l'Agenzia

Da ultimo, non posso non suggerire la ricostituzione di una Agenzia nazionale per il Terzo settore, ente che fu malauguratamente soppresso nel 2012. Fu una scelta sbagliata di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.

C’è la Consob per le società for profit e la Borsa, c’è l’Antitrust, ci sono Agcom e l’Agcm, l’Agia e la Covip, e tanti altri. L’istituto delle agenzie indipendenti è molto diffuso nel nostro corpo sociale e istituzionale. Non si capisce perché il Terzo settore e l’economia sociale che l’Europa spinge e promuove non possano contare su un soggetto terzo rispetto al governo e agli stessi Ets che si occupi di vigilanza e di rafforzamento di un settore così cruciale per il processo di civilizzazione del nostro Paese.
Il Terzo settore è ancora un “Prometeo incatenato”, per usare una famosa espressione di David Landes. La riforma, la sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale, la decisione recente della Commissione Europea rappresentano una grande opportunità per liberarlo dalle catene. Ma le opportunità vanno colte e tradotte in azioni concrete. Non si può continuare a tergiversare. Bisogna decidersi da che parte si intende stare: se continuare con provvedimenti di mera cosmesi e con interventi che valgono solo a dare forma ad un doppio isomorfismo, verso il Mercato e verso lo Stato, oppure adoperarsi per slegare il nostro Prometeo. Se il fine che si dichiara di perseguire è quello di vincere la paralizzante apatia dell’esistente, non penso che ci siano dubbi al riguardo.

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