Volontariato
Ri/costruire l’empatia. Per uscire dalla pandemia imparando a stare al mondo
Non puoi davvero capire un’altra persona
fino a quando non consideri le cose dal suo punto di vista,
fino a quando non entri nella sua pelle e non ci cammini dentro
Harper Lee
Il buio oltre la siepe
La decisione post-ferragostana del governo di richiudere le discoteche – dopo un’avventata e fuorviante riapertura – pur fortemente contestata (in verità più dai gestori che dai giovani), così come le altre misure sensate di contenimento del virus, si può inscrivere all’interno di un tentativo – seppur maldestro e per decreto – di ri/costruzione di un filo di empatia sociale, senza la quale non usciremo definitivamente da questa ne dalle altre crisi sistemiche che ci aspettano.
Lo scrivevo già a metà marzo, quando eravamo tutti bloccati in casa ed obbligati al totale distanziamento fisico: “che cosa ci sta insegnando questa epidemia nata in Cina, che ha attraversato l’Asia e l’Europa ed è giunta in America? (…)
Che non serve erigere muri, alzare barriere, tracciare confini, chiudere i porti, perché il pianeta è naturalmente e strutturalmente interconnesso. Irriducibilmente aperto, nonostante le nostre chiusure mentali.
Che siamo tutti sulla stessa barca e nessuno può salvarsi da solo, indipendentemente dalla ricchezza, dalla religione, dalla nazionalità e dal potere personali. La vita di ciascuno dipende anche dal comportamento responsabile degli altri.
Che abitiamo un sistema fragile, delicato, in equilibrio instabile e precario ed è più saggio investire le risorse di tutti per la difesa della vita, dell’umanità e dell’ecosistema, anziché per la preparazione delle guerre.
Che la società esiste – non solo l’individuo – e resiste e con essa la solidarietà, l’empatia, il prendersi cura reciproco, la responsabilità nei confronti degli altri, nonostante decenni in cui ci viene stoltamente insegnato il contrario.
E molti altri insegnamenti, da non dimenticare di nuovo quando tutto questo sarà finito. Fino alla prossima crisi globale. Quella ecologica”.
Ma gli insegnamenti non basta riceverli, perché siano efficaci vanno anche appresi. Tra questi, l’apprendimento dell’empatia è senz’altro il più importante e generativo. La pratica dell’empatia – oggetto di ricerca in filosofia (Edith Stein), di sperimentazione in psicologia (Carl Rogers), di accertamento nelle neuroscienze (Giacomo Rizzolati) – ha a che fare con la capacità umana di “entrare nella pelle” di un altro e “camminarci dentro”, come fa dire Harper Lee dall’avvocato Atticus Finch alla figlia Scout. Non a caso nel Museo dell’empatia fondato a Londra dal filosofo Roman Krznaric si accede attraverso l’esperienza di indossare le scarpe di qualcun altro, camminandoci dentro. Del resto, anche da noi l’espressione che – popolarmente ma efficacemente – spiega maggiormente il “sentire l’altro” (definizione che ne dà la filosofa Laura Boella) è “mettersi nei suoi panni”.
“Mettersi nei panni” degli altri, in alcuni casi emblematici nella storia dell’umanità non è stata solo una metafora ma una scelta di vita concreta e consapevole. Due esempi significativi tra i tanti: Francesco figlio di Pietro di Bernardone che si spoglia materialmente in piazza dei ricchi abiti paterni e li consegna al padre, mercante di tessuti – come descritto nel celebre affresco di Giotto – vestendosi per sempre di un sacco, come i mendicanti, i più poveri di Assisi dei quali sceglie di condividere la vita; Moandhas K. Gandhi avvocato laureato a Londra che, dopo il passaggio in Sudafrica, torna in India e sceglie di liberarsi degli abiti europei e tessere con l’arcolaio – che non a caso diventerà simbolo della lotta per l’auto-governo – i poveri abiti tradizionali che indossa per tutta la vita e con i quali conduce le masse indiane nella lotta per l’indipendenza dall’impero. Esempi di empatia vissuta con estrema coerenza e radicalità, difficilmente replicabili in quelle modalità ma sicuri punti di riferimento per una pratica sociale dell’empatia che oggi può significare una via d’uscita dalla pandemia e – contemporaneamente – una via d’ingresso nello stare al mondo nel tempo della complessità.
Dalla pandemia e dai suoi colpi di coda – seppure le differenze di condizioni materiali di vita ne alleggeriscono o aggravano la sostenibilità – non si può davvero “sortirne da soli” (per usare la formula con la quale Lorenzo Milani indicava “l’avarizia”), ma se ne esce solo attraverso una pratica consapevole di empatia, mettendosi nei panni dei più fragili: gli anziani, i bambini, i malati. Assumendo su di sé la responsabilità della salute – e dunque della vita – dell’altro, degli altri. E quindi anche di sé. E’ un prendersi cura reciproco, che comporta anche delle rinunce personali a beneficio di tutti. E’ un’esperienza sociale di solidarietà collettiva che, non a caso, è attaccata sul piano interno ed internazionale proprio da quelle forze di destra e da quei personaggi – Trump, Bolsonaro, Salvini, per citare i più noti – che hanno fatto dell’egoismo sociale la cifra della propria narrazione pubblica e non sopportano alcuna limitazione al liberismo individualista, scaricando le responsabilità sempre sull’esterno. Questi hanno da tempo ridicolizzato le pratiche di empatia, definendole spregiativamente “buonismo”, mentre ormai solo l’empatia può salvarci davvero. Attraverso una ri/costruzione culturale e sociale.
Oltre a poterci salvare dalla pandemia, l’empatia è anche il principale dei saperi necessari per lo stare al mondo contemporaneo: imparare a mettersi gli occhiali dell’altro – forse metafora più adeguata al tempo della complessità – consente di uscire dall’egocentrismo e dall’egotismo, per guardare le cose anche da altri punti di vista, con altri occhi. E’ un’operazione necessaria sempre per operare la “trasformazione nonviolenta dei conflitti” – come insegna Johan Galtung – ma anche un sapere indispensabile per vivere nei contesti intergenerazionali, interculturali, interreligiosi, in una parola complessi. Nei quali la prima epidemia da fronteggiare è, sempre, quella portata dai virus del pregiudizio e dell’odio. Per i quali non è possibile alcun vaccino elaborato in laboratorio a posteriori, ma solo la costruzione di robusti fattori protettivi empaticamente disseminati a priori.
Dunque, per uscire dalla pandemia imparando a stare al mondo, adesso è tempo di ri/costruire l’empatia.
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